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DESIGN 2013/14 n 1 prof POLIDORI - Design and Evolution of Experimental Prototypes Suggested
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bibliografia di approfondimento: 10 post.

    ^^ Quella plastica nostrana che colorò la vita quotidiana

    venerdì 28 febbraio 2014

    ^^ Quella plastica nostrana che colorò la vita quotidiana

    *** OK non tocchiamolo più. cp
    "All’inizio degli anni ’50, cominciarono ad arrivare in Italia una moltitudine di polimeri parzialmente o del tutto sconosciuti: PVC, Melammina, Polietilene, Polistirene, Nylon, Terilene, Lycra. “Arrivavano sul mercato in continuazione plastiche nuove, chi le aveva prodotte per usi bellici cercava di venderle anche per altri impieghi. Mavenivano fornite solo le loro caratteristiche e null’altronon c’erano esempi di oggetti realizzati cui rifarsi; si sapeva che gli inglesi producevano delle belle bacinelle con il Polietilene… Comprarle e applicarle era un rischio, una continua sfida capire che cosa ci si poteva fare. Bisognava provare, sperimentare…."
    (Anna Castelli Ferrieri, intervista rilasciata a Cecilia Cecchini, febbraio 2006, da: Cecilia CECCHINI, Splendori e miserie delle plastiche nel paesaggio domestico, 1950 – 1973, in Cecilia Cecchini, a cura di, mò...moplen, il design delle plastiche negli anni del boom, Designpress, Roma, 2006, pag 14.)
    "Le plastiche arrivavano in un Paese semidistrutto, con alle spalle un ventennio da dimenticare, ma anche, anzi proprio per questo, un Paese in grande fermento, con un clima culturale caratterizzato dalla determinazione e dall’urgenza degli intellettuali di confrontarsi, di uscire dal letargo culturale del fascismo, di ricostruire materialmente e moralmente un mondo nuovo, diverso, migliore.
    Per i progettisti del nascente disegno industriale si trattava di rispondere ad una domanda di modernità fino ad allora inevasa, in un mercato produttivo e in un circuito distributivo che doveva per buona parte essere reinventato.
    Si trattava di costruire un linguaggio per l’industria, partendo dal vasto e prezioso bagaglio della cultura artistica e artigianale presente in Italia. Un linguaggio in grado di incidere sulla realtà del Paese in un campo – quello degli artefatti – più libero e immediato di quello dell’architettura e dell’urbanistica. Un linguaggio che poteva essere veicolato e riprodotto a buon mercato proprio sfruttando le potenzialità della nascente industria.
    In questo quadro l’impiego dei polimeri – materiali nuovi, economici e versatili – fu la lungimirante risposta di alcuni giovani imprenditori, come Giulio Castelli, laureato in ingegneria chimica con Giulio Natta, che fondò la Kartell nel 1948 con la volontà di produrre oggetti di uso quotidiano puntando sulla qualità, sulla quantità e sul basso prezzo. E di aziende già esistenti, come quella fondata da Enrico Guzzini nel 1912 che passò dalla produzione manuale di tabacchiere in pregiato corno, a quella di oggetti in plastica, realizzando, già nel 1938, le prime posate da insalata in Plexiglas, materiale usato fino ad allora solo nell’industria bellica. O la Mazzucchelli di Castiglione Olona, fondata da Santino nel 1849 per la produzione di bottoni e pettini ricavati dalle corna di bue, che divenne un punto di riferimento internazionale per la lavorazione della Celluloide, del Rhodoid e, poi, di tanti altri materiali plastici.
    O, ancora, la Ditta Pirelli fondata nel 1872 per la produzione di articoli in gomma”, che oltre ai pneumatici iniziò a produrre borse per l’acqua calda, suole per le scarpe, impermeabili, flaconi e un gran numero di semilavorati dalle prestazioni elastiche, come il Nastrocord, subito sfruttato da Marco Zanuso, insieme alla Gommapiuma, per la realizzazione delle poltrone Lady e Martingala  prodotte dalla Arflex."
    Cecilia CECCHINI, op. cit.  pag 15-16.
    Fiera Campionaria di Milano, Ingresso della Mostra Internazionale Estetica Materie Plastiche, 1956
    da: http://archiviostorico.fondazionefieramilano.com/la-nostra-storia/1951-60.html
    Era l'11 marzo 1954 quando, Giulio Natta e il suo team, nell'Istituto di Chimica Industriale del Politecnico di Milano, diedero vita al polipropilene (Nel 1963, Natta, insieme al chimico tedesco Karl Ziegler, fu insignito del Premio Nobel per la chimica, per la scoperta dei catalizzatori con i quali fu possibile creare il polipropilene.). Grazie all'intuito di Piero Giustiniani, manager della Montecatini, e quindi ai grossi finanziamenti stanziati, ottennero, a seguito della reazione di polimerizzazione del polipropilene, il polipropilene isotattico (PP-H), ribattezzato Moplen.
    "Nel 1956 alla Fiera di Milano - promossa dalle riviste StileIndustria Materie Plastiche, voluta da Alberto Rosselli con la consulenza di Gio Ponti – si svolse la “I Mostra Internazionale dell’Estetica delle Materie Plastiche”, dove furono esposti 160 oggetti prodotti in Italia, in altri paesi europei e negli Stati Uniti."
    Cecilia CECCHINI, op.cit., pag.19
    Alberto Rosselli, Stile Industria, n.7 del Giugno 1956
    da: http://www.modernism101.com/rosselli_stile_industria_07.php



























    "Erano oggetti di varia natura, accomunati dal fatto di avere un disegno contraddistinto dall’uso appropriato del materiale.
    In quella occasione apparvero evidenti le grandi potenzialità tecniche ed espressive delle plastiche, la possibilità di realizzare attraverso un buon design una loro immagine originale. E sembravano ancora più incongrue le produzioni imitative che ancora sopravvivevano."
    Cecilia CECCHINI, op.cit., pag.19
    Fiera Campionaria di Milano, Sala Moplen (in occasione della prima presentazione al mondo), 1957
    da: http://archiviostorico.fondazionefieramilano.com/la-nostra-storia/1951-60.html
     "La declinazione delle suggestioni formali delle plastiche si ebbe compiutamente negli anni ’60, ma questi materiali cominciarono ad entrare prepotentemente nelle case degli italiani già dalla metà degli anni ’50, modificando gli ambienti domestici, cambiando i gesti e i suoni della quotidianità, inventando nuovi oggetti adatti a soddisfare nuove funzioni.
    La suggestione, il calore, la scabrosità e la sonorità dei materiali naturali furono in pochi anni rimpiazzati dalle impensabili forme delle plastiche, colorate, lisce, leggere, silenziose. Ed economiche, dunque accessibili, al contrario di molti prodotti dell’artigianato riservati ai ceti più abbienti. Le plastiche assecondavano una democratizzazione dei consumi che esplose attorno al 1958, indicato come l’anno dell’inizio del boom economico."
    Cecilia CECCHINI, op.cit., pag.19
    Certo la plastica non era vista con simpatia da tutti, infatti negli anni cinquanta, il semiologo francesce Roland Barthesdisse:
    "Più che una sostanza, la plastica, è l'idea stessa della sua infinita trasformazione; è come indica il suo nome volgare, l'ubiquità resa visibile (…). Nell'ordine poetico delle grandi sostanze è un materiale sgraziato, sperduto tra l'effusione della gomma e la piatta durezza del metallo: esse non arriva a nessun vero prodotto dell'ordine minerale, schiuma, fibre, strati. È una sostanza andata a male: a qualunque stato la si riduca, la plastica, conserva un'apparenza fioccosa, qualcosa di torbido, di cremoso e di congelato, una incapacità di raggiungere la levigatezza trionfante della natura. E più di tutto la tradisce il suono che ne esce, vuoto e sempre piatto; il suo rumore la disfa, come anche i colori, perché sembra poterne fissare solo i punti chimici: del giallo, del rosso, del verde, prende solo lo stato aggressivo, servendosi di essi come di un nome, capace di mostrare soltanto dei concetti di colore."
    citazione in Paolo PORTOGHESI e Giovanna MASSOBRIO, Album degli anni Cinquanta, Laterza Editore, Roma, 1977, pag.332.
    Ma basta considerare gli arredi di Charles e Ray Eames o la serie Tulip di Saarinen per concludere che la plastica era invece disponibile ad assumere forme di una dignità pari a quella del legno e del marmo.
    C. & R. Eames, Arredi (Soft Pad, tavolo riunione, tavolino, modern chair),
    Miller e Vitra, anni 50 e 60
    Vasca in Moplen
    "Moplenpolimero termoplastico, era estremamente leggero (peso specifico 0.90, dunque filamenti e funi galleggiavano sull’acqua), resistente al calore (punto di fusione 176°, dunque superava l’agognata barriera dei 100° indispensabile per la sterilizzazione dei recipienti), possedeva ottime proprietà dielettriche (dunque adatto ad applicazioni in campo elettrico ed elettronico), facilmente plasmabile poteva essere estruso, formato sotto vuoto, stampato con spessori sottili e forme complesse, colorato in massa, saldato. Il Polipropilene è diventato così in pochi anni il materiale della 
    quotidianità nella casa, ma cominciò ad essere impiegato in modo massiccio anche in agricoltura, nel settore elettromedicale, nell’industria.(Cecilia CECCHINIop.cit., pag.20) La produzione principiò alla fine degli anni '50, ma è negli anni '60 che questo nuovo materiale provocherà una vera e propria rivoluzione e che darà loro il nome di: “anni di plastica”.
    Passapomodoro in Moplen
    Spremiagrumi in Moplen
    Tritacarne in Moplen
    Imbuto in Moplen
    Scolapasta in Moplen
    Insalatiera in Moplen
    Contenitore Alimenti Liquidi in Moplen
    "Tra kitsch imitativo, improbabili pezzi

    frutto della libertà progettuale consentita dalle plastiche, originali di famosi designer, copie prodotte in migliaia di pezzi e mirabili esempi di design anonimo, il paesaggio domestico 

    intraprese in quegli anni una trasformazione senza ritorno, cui le plastiche contribuirono in maniera significativa."
    Cecilia CECCHINI, op.cit., pag.20 

    "Anche il più piccolo laboratorio di falegnameria imparò in brevissimo tempo a costruire banconi da bar... che sembravano disegnati da Gio Ponti; la più piccola officina elettrica imparò subito a fare lumi che sembravano di Viganò; il tappezziere si sbizzarrì su modelli di poltrone che potevano simulare Zanuso. Questa sorta di saccheggio indiscriminato e dissacrante permise un rinnovamento formale di tutta la fascia media della società italiana: fu uno stile che sostituì definitivamente gli orpelli fascisti, l’Ottocento provinciale, che permise di configurare in maniera provvisoria ma completa una prima ipotesi di Italia moderna”
    Andrea Branzi, citazione in, Cecilia CECCHINI, op.cit., pag.17
    Lella e Massimo Vignelli, Saratoga, Poltronova, 1964
    da: http://www.centrostudipoltronova.it/it/saratoga/
    "La plastica non era più sinonimo di prodotto atto a sostituire materiali nobili e naturali, ma veniva privilegiata per le sue virtù di resistenza, serialità e possibilità cromatiche. Addirittura si notava allora un ribaltamento di percezione e identità: i materiali naturali venivano camuffati da artificiali, esemplare in questo senso era il caso delle sedute Saratoga, disegnate nel 1965 da Lella e Massimo Vignelli per Poltronova, in cui il legno della struttura di base venne laccato in poliestere, e quelli artificiali diventano ricercati, come il Moplen che invadeva le case degli italiani in piccoli oggetti d’uso quotidiano, dalle stoviglie ai giocattoli, e perfino alcune componenti d’arredo venivano realizzati in plastica. "
    Simona SCOPELLITI, Il design degli anni Sessanta e Settanta : un nuovo modo di intendere l'utenza, tra progetti di utopia radicale e impegno sociale , pag. 12 -http://dspace.unive.it/bitstream/handle/10579/1711/825991-126302.pdf?sequence=2 
    Questa rivoluzione non fu soltanto stilistico-pratica, ma divenne una vera e propria rivoluzione sociale.
    Sostituendosi all'acciaio, al vetro, al legno, alla bachelite, il Moplen rivoluzionò la vita degli italiani, di ogni ceto, dando colore e leggerezza a quegli strumenti che sino ad allora erano stati freddi ed anonimi compagni di lavoro delle casalinghe.
    L'Italia divenne l'avanguardia in una nuova tecnologia, che era alimentata dal boom economico e che lo alimentò a sua volta, creando nuovi posti di lavoro e benessere economico.
    Per chi sono i materiali nuovi? Per chi sono i prodotti del disegno industriale? I nuovi materiali sono stati lungamente guardati con sospetto, quando il pubblico disorientato si è chiesto: ma la plastica, cos’è? È ricca o povera, da salotto o da cucina? È per me, per noi, per loro o per tutti? Questo per tutti indubbiamente, ha spaventato. Coloro che non sapevano riconoscere un valore che ne catalogasse i requisiti rappresentativi, sono rimasti perplessi.
    Certo è sempre difficile verificare l’importanza e la validità di concetti e di estetiche nuove soprattutto in casi come questo, quando il mercato ha cominciato per la prima volta ad offrire, senza alcuna discriminazione preconcetta, oggetti che avevano chiaramente una destinazione comune. Intendendo per comune, non quanto è ovvio e banale ma quanto è pensato e proposto ad un pubblico al quale si chiede un solo tipo di preparazione nell’accostarsi all’oggetto: di saperlo assimilare come espressione totale della propria civiltà. La plastica è materiale non per ricchi o per poveri, non per la massa o per l’elite. Ha delle precise caratteristiche tecniche che la rendono possibile per fornire oggetti che attraverso il suo impiego acquistano forme tali da determinare una nuova estetica
    GRAMIGNA Giuliana, Plastica per la massa o per l’elite?, in “Ottagono”, n. 13, 1969

    Già negli States, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, il genio di Earl Tupper, utilizzando quel materiale flessibile, robusto, inodore e leggero, quale è il polietilene, diede vita ai Wonderbowls, coperchi ermetici che assicurano una perfetta impermeabilità e che rivoluzioneranno il modo di conservare i cibi invadendo le case di tutto il mondo. (Anche il modo di vendere, visto che l'azienda punterà proprio sulle capacità e la voglia di indipendenza economica delle casalinghe di tutto il mondo, per la diffusione del prodotto. Non c'era più il commesso che bussava porta a porta, ma si comprava direttamente dalla vicina di casa.)


    "L’uso massiccio delle plastiche ha di fatto coinciso-contribuito al passaggio da una società
    ancora di stampo contadino alla “società del benessere”. Nel bene e nel male esse assecondavano la corrente dell’evoluzione dei mutati e nuovi consumi, talvolta anticipandoli. Un processo che toccò il suo massimo negli anni ’60, di cui le plastiche furono le scintillanti e colorate icone.
    Per comprendere appieno questo processo, l’impiego dei polimeri deve essere inquadrato nell’ambito delle più generali modificazioni che il design – neonata disciplina dalle funzioni ancora nebulose - operò negli anni ’50 sull’intero universo materico. Fu una rivisitazione che coinvolse anche i materiali più tradizionali - dai vimini alle ceramiche – inventando insospettabili valenze espressive."
    Cecilia CECCHINI, op.cit.
    "Le materie plastiche hanno assunto molte valenze nel corso degli anni. In alcune nazioni europee e americane le proprietà delle materie plastiche (come ad esempio l'economicità, la leggerezza, le infinite possibilità cromatiche) caratterizzavano soprattutto prodotti “poveri” e destinati ad un'utenza che non poteva permettersi di utilizzare i materiali naturali o quelli artificiali già nobilitati da decenni. L'intervento progettuale del designer, ha permesso in Italia di trasformare questi “difetti” in pregi e in qualità. La cultura italiana del progetto ha infatti saputo fornire alle materie plastiche un'ottima autonomia e un'identità propria che le ha sottratte al ruolo di imitazione di materiali “nobili” (come ad esempio l'avorio). Ha inoltre dato un “valore aggiunto” grazie al loro uso in oggetti non legati agli “stili” classici della tradizione.”
    Nicoletta e Massimo SALA, Le geometrie del design, FrancoAngeli editore, Milano, 2005, pag. 148

    Giancarlo Mattioli, Nesso, Artemide 1967
    da: http://www.archiproducts.com/it/prodotti/94856/modern-classic-lampada-da-tavolo-in-abs-nesso-artemide.html


    Gae Aulenti, Re Sole, Kartell, 1967
    da http://www.eyeondesign.it/lampada-king-sun-di-gae-aulenti-per-kartell/
    Il mondo della produzione cominciò ad usare "...i polimeri di Natta  per creare dei piccoli oggetti che rinnovarono il panorama domestico grazie e soprattutto alle loro nuove forme e ai colori inconsueti per quelle tipologie di oggeti (tinozze, secchi, pattumiere, contenitori per alimenti a chiusura ermetica, tazze, posate e insalatiere). Tutti colorati, durevoli, quasi indistruttibili, e facilmente lavabili. Negli anni '60 i prodotti in plastica hanno avuto un salto di qualità, grazie a una sempre più approfondita conoscenza delle caratteristiche e delle tecnologie di lavorazione di questi materiali. Si amplia così anche la gamma tipologica grazie ad usi più precisi ed intelligenti. Nascono nuovi prodotti, ma anche nuove e inedite versioni di oggetti legati alla tradizione. L'avvento dei materiali a iniezione ed espansi evidenziarono delle buone proprietà strutturali e degli insospettabili risultati formali, come ad esempio la sedia monoblocco in polistirene (1967) ideata da Panton. Di questo decennio è la lampada Nesso (1967), di Giancarlo Mattioli (Gruppo Architetti Urbanisti Città Nuova) per Artemide. È caratterizzata da una forma dolce e amichevole, tipica espressione dello spirito e del gusto del periodo in cui è stata progettata."
    Nicoletta e Massimo SALA, op.cit,  pagg. 148,149.
    "Nel corso degli anni ‘60 i polimeri furono i materiali d’elezione nell’assecondare le istanze del vivere “giovane”, informale, nomade. Tra ideali rivoluzionari, seduzioni consumistiche e nuovi miti, il potere comunicativo delle plastiche la fece da padrone: dai morbidi Poliuretani, al trasparenteAcrilico, al lucido ABS. Mentre arrivavano anche in Italia da oltre oceano le suggestioni dell’era spaziale veicolate da film cult come Barbarella (1967) – Jean Fondavestita da Paco Rabanne in una bolla fatta di plastica - e 2001 Odissea nello spazio (1968) con gli interni futuribili della stazione spaziale"
    Cecilia CECCHINI, op.cit., pag.21
    "Se negli anni ’50 l’impiego pionieristico dei polimeri era stato caratterizzato da una forte
    sperimentazione tecnico-produttiva - necessaria per controllare appieno le prestazioni che i vari tipi di plastiche potevano fornire - negli anni ’60 si accentuò una sperimentazione linguistico-formale, realizzata grazie ad un loro impiego spregiudicato.
    La causa razionalista del “buon design” era superata dal potere seduttivo dei nuovi oggetti resi possibili dall’uso creativo di questi materiali: dalla poltrona gonfiabile Blow diDe Pas, D’Urbino e Lomazzi (mirabile incrocio tra un canotto e l’omino Michelin),alla poltrona Sacco di Gatti, Paolini e Teodoro (quella sulla quale il terrorizzato Fantozzi non riusciva a stare seduto davanti al suo capoufficio).
     De Pas, Lomazzi e D'Urbino, Blow, Zanotta, 1967
    Gatti, Paolini e Teodoro, Sacco, Zanotta, 1969
    Manifesti di un nuovo modo di sedersi, di abitare, di vivere, resi possibili dall’uso del PVC termosaldato per Blow e di piccole sfere di Polistirene preespanso per Sacco.
    “Voglio dirti una parola sola: Plastica! L’avvenire del mondo è nella plastica”
    Questo l’ammonimento che un anziano amico di famiglia dava ad un giovanissimo Dustin Hoffman nel film Il Laureato (1967), che racchiude l’atteggiamento di quegli anni verso le plastiche, in America come in Italia...
    ... Erano gli anni nei quali la sicurezza ambientale, lo smaltimento dei rifiuti, la compatibilità, non occupavano il centro del dibattito. Si approfittava di tutte le semplificazioni, i miglioramenti, i risparmi che le plastiche consentivano, senza porsi troppe domande."
    Cecilia CECCHINI, op.cit., pag.22
    cfr.: One Word: Plastics (da YOUTUBE.COM scena da "The Graduate" di Mike Nichols, 1967), e Il futuro è nella plastica - Abatantuono  ( da YOUTUBE.COM scena da "Nel continente nero" di Marco Risi, 1992).
    “Troppo sovente non si tenne conto del fatto che i pregi e i difetti d’un materiale sono le due facce d’una stessa moneta, la quale va spesa con senso dell’opportunità da afferrare, ma anche con ilsenso del limite da rispettare. Chi eluse questi semplici ma fondamentali criteri contribuì in modo talora perverso, ed in misura non sempre decente, a scambiare la sostituzione con l’imitazione; e soprattutto a trasformare una possibilmente lecita invasione di materiali nuovi in una loro insopportabilmente illecita invadenza”
    Augusto MORELLO “Design, tecnologie e polimeri” in Augusto Morello e Anna Castelli Ferrieri, Plastiche e Design, Arcadia edizioni, Milano, 1984.

    Gino Bramieri pubblicizza casalinghi in Moplen, 1967
    Il giovane Gino Bramieri, già attore affermato e conosciuto al grande pubblico per la sua simpatia, magnificava, nei Carosello del ciclo "Quando la moglie non c'è", le caratteristiche e prestazioni di questo nuovo prodotto dell'industria italiana. "e mò, e mò, e mò, Moplén" introduzione del minifilm con cui si reclamizzava il prodotto, sarebbe diventato un vero e proprio tormentone e l'ammonimento "ma signora, badi ben, che sia fatto di Moplén!" dava indicazione sulla scelta attenta di quello che era un prodotto totalmente Made in Italy
    Fu scelto un attore "popolare" che trasmettesse simpatia, ma allo stesso tempo sicurezza e familiarità, inoltre, per la prima volta, si assisteva all'inversione dei ruoli della famiglia. L'uomo in casa a svolgere le faccende domestiche e la moglie fuori a lavorare... e quando la moglie non c'è "mi tocca fare tutto da me!". Anticipo di quella rivoluzione sociale che avrebbe cambiato gli schemi e stravolto gli stereotipi nella famiglia italiana. 
    Pubblicità di Moplen all'inizio degli anni '90
    Questo cocktail, sapientemente studiato e prodotto da General Film, con la sceneggiatura di Leo Chiosso e la regia di Mario Fattori ed Edo Cacciari, incuriosì gli italiani a recarsi nei mercati per scoprire questo Moplen. Chi non ha vissuto quegli anni può solo immaginare la meraviglia negli occhi di quel popolo che veniva da anni austeri e viveva in case sobrie, nel vedere tutti quegli oggetti colorati, leggeri, pratici, resistenti, invitanti, disposti sugli scaffali, e lì pronti per essere acquistati a prezzi accessibili.
    Quell'avventuroso casalingo di Bramieri sarà successivamente sugli schermi con una serie di sketch del ciclo "Gli Italiani visti da Gino Bramieri", in cui interpreterà diverse caricature dell'italiano "tipo" alle prese col Moplen, fino al 1967, quando il miracolo economico inizierà il suo declino.
    Alcuni Caroselli dal canale Archivio Nazionale CinemaimpresaTV su YOUTUBE.COM 
    Carosello "Quando la moglie non c'è!"
    Carosello "Gli Italiani visti da Gino Bramieri"

    lunedì 24 febbraio 2014

    Pubblicità, arte e cultura popolare di massa Pubblicità, arte e cultura popolare di massa

     B.Munari, 1964
    La tecnologia […]negli anni Sessanta […] comincia ad essere considerata all'unanimità il simbolo del mondo moderno, perché permette di migliorare la qualità della vita e di abbreviare e di rendere meno faticoso il lavoro. È in questi anni che al modello industriale basato sull'uso delle macchine si affianca l'elettronica, che irrompe in modo massiccio nei paesi ad economia capitalistica determinando la nascita della società industriale avanzata. Da questo momento sarà la velocità elettrica, applicata ai congegni per l'automazione e ai calcolatori, a governare la produzione industriale, rendendo fluide operazioni un tempo parcellizzate e segmentate. Le novità tecnologiche, inoltre, contribuiscono al mutamento sostanziale di tutto il sistema sociale: grazie al grande sviluppo dell'informazione e della comunicazione di massa che divulgano i modelli, si verifica una circolazione senza precedenti non solo di oggetti ma anche di pensieri in grado di influenzare abitudini e stili di vita. […] È proprio grazie al buon livello estetico raggiunto dalla pubblicità che si diffonde, anche fra chi non è attento ai fatti dell'arte contemporanea, l'abitudine al confronto con le nuove forme d'espressione, rendendo più facile la penetrazione nel sociale dei contenuti della nuova cultura popolare di massa. […]
    Nei manifesti di questi anni, gli orpelli del linguaggio, le didascalie informative e il troppo parlato del decennio precedente lasciano il posto all'impatto visivo del prodotto, che appare isolato, liberato dal contesto e ingigantito a dismisura […] I prodotti abbandonano il contesto di appartenenza, diventano immagini a se stanti che campeggiano nella loro nuova monumentalità di icone, spesso in forma di fotografia realista seppur ritoccata […] 
    dal web:  http://www.storiaefuturo.com/it/numero_8/articoli/1_pubblicita-arte-italia~125.html

    […]I vecchi pubblicitari affermavano, e ancor oggi c’è chi è dello stesso parere, che un manifesto deve essere un pugno in un occhio.  E’ un modo di informare il passante, tutto intento a meditare sulla trasformazione formale e strutturale del bruco in farfalla, piuttosto violento e, come tutti sanno, alla violenza si cerca di opporre altrettanta violenza. […] Insomma il manifesto si deve nettamente staccare dagli altri manifesti, balzare fuori, colpire il passante e violentarlo.[…] Molti manifesti vogliono farsi sentire a tutti i costi anche se non hanno niente da dire di interessante e allora gridano con i colori, gridano con il formato e soprattutto gridano con la quantità. […] Le ricerche visive invece ci insegnano che basterebbe usare un certo colore insolito, una forma diversa, dare una informazione esatta e immediata per informare il passante, senza violentarlo, senza dover sprecare tanto denaro per l’effetto << quantità >>[…] Esiste uno schema di manifesto al quale spesso i grafici fanno riferimento, per l’efficacia visiva, ed è la bandiera giapponese: un disco rosso in campo bianco. 
    foto 2 A.Testa, 1960
    Perché questo schema così semplice ha molta efficacia visiva? Perché  il campo bianco isola e stacca il disco da tutto ciò che lo circonda, da qualunque tipo di manifesto e perché il disco è una figura dalla quale l’occhio non si stacca facilmente. Infatti l’occhio (lo sguardo) è abituato a fuggire dalle punte, come dalle punte della freccia, per esempio.  Un triangolo ha tre possibilità di fuga dello sguardo […] un cerchio non ha punte, angoli di fuga, e l’occhio è costretto a girare dentro al disco fino a staccarsene con uno strappo..[…] Un errore è invece il comporre un manifesto tagliando la superficie in parti diverse come colore e come interesse. Un manifesto così fatto si mimetizza con gli altri perché ogni parte nella quale è tagliato dalla composizione, si collega visivamente al manifesto vicino per cui, alle volte, succedono delle strane informazioni che oltre a confondere il pubblico, annullano l’efficacia del messaggio. […]
    Bruno Munari, Arte come mestiere,  ed. Economica  Laterza, 1966 dal web: http://www.graficainlinea.com/
    Contemporaneamente si comincia a coniugare l'ambito della comunicazione verbo-visiva nello slogan, nella frase o nella parola ad effetto in grado di entrare nel vocabolario quotidiano della gente […] In questo senso, importantissima sarà la vicenda di Carosello[…] Il 3 febbraio 1957, prima messa in onda di Carosello , non è soltanto la data che segna l'esordio della pubblicità in TV, ma è anche quella che sancisce la presa di potere del mezzo televisivo sugli altri media utilizzati dalla pubblicità fino ad allora […]

    foto 3 A. Warhol, 1962
    R. Lichtenstein, 1961
    Anche l'arte subisce l'influenza dei media [...] In ambito americano Lichtenstein, Warhol, Rosenquist, Wesselmann, Indiana, sono coloro che compiono il passo decisivo verso un atteggiamento scevro da nostalgie legate alla sfera del privato, adottando un registro espressivo spersonalizzato, che punta all'immanenza dell'oggetto e alle sue qualità estetiche di piacevolezza, all'impatto visivo del prodotto nuovo fiammante, appena uscito dall'industria, o all'immagine fornitane da pubblicità e mass media […] Sono soprattutto gli artisti che lavorano sul versante iconico ad avere un contatto più diretto con il linguaggio espressivo e le tecniche adottate in pubblicità. Oltre agli espedienti tipici della cartellonistica del periodo, quali la decontestualizzazione, l'ingrandimento, l'isolamento di un dettaglio, gli artisti Pop nelle loro immagini estremamente astratte e semplificate simulano la perfezione tecnica della stampa o adottano direttamente le tecniche della fotolito-riproduzione, introducendo nel sistema dell'arte due concetti destinati ad avere molto peso negli anni a seguire: quello della serialità, che mette in crisi lo statuto di unicità dell'opera, e quello della spersonalizzazione dell'artista, che cessa di essere un artigiano, smette di sporcarsi le mani per devolvere alla produzione industriale e ai mezzi extra artistici la realizzazione del suo lavoro. Lo stesso Warhol ha più volte affermato di voler diventare una macchina, di voler assumere cioè su di sé le modalità produttive tipiche dell'industria, rimuovendo ogni traccia di emozionalità e di soggettività individuale […]

    ^^ La lista della spesa di Michelangelo - Linguaggio: parole, terminologia, segni. Comunicazione

    ^^ La lista della spesa di Michelangelo - Linguaggio: parole, terminologia, segni. Comunicazione

    "L'opera d'arte nasce dai segni, ma anche li fa nascere”da web: http://it.wikipedia.org/wiki/Marcel_Proust_e_i_segni

    La lista della spesa di Michelangelo ci introduce al modo in cui un oggetto viene rappresentato, comunicato,  interpretato ma anche a come viene pensato, immaginato, realizzato e in seguito testato e verificato. 
    Linguaggio: parole, terminologia, segni. Cos’è la semiotica? Scienza generale dei segni, della loro produzione, trasmissione e interpretazione, o dei modi in cui si comunica e si significa qualcosa, o si produce un oggetto comunque simbolico. 
     […] Da quando si conoscono le lingue scritte abbiamo la prova che gli esseri umani hanno affrontato la questione della semiotica. […] I segni (σημεια), prima di tutto, sono sentimenti dell'anima e sono uguali per tutti gli esseri umani. Quando questi sentimenti sono immagini, vale a dire le cose reali (πραγματα), sono ugualmente gli stessi per tutti. 
    Aristotele definì le aree della semiotica:
    Anima [ψυχη] psychi
    Sentimenti  [παθηματα] pathimata
    Cose [πραγματα] pragmata
    Simboli  [συμβολα] symbol  suoni o segni / scritti […] ll famoso quadro di Magritte "Ceci n'est pas une pipe" è un esempio molto utile per spiegare l'idea di Aristotele. Perché ha detto, questa non è una pipa? Magritte mostra un simbolo di una pipa, non una pipa. Solo una pipa è una pipa. Anche la parola "pipa" non è una pipa, parola e immagine sono simboli di un oggetto, in questo caso la pipa, non l'oggetto stesso […]
    Tommaso D'Aquino distingue tre scienze: Philosophia Moralis, Philosophia Naturalis e Scientia de signis.
    "Scientia de signis "design is scientia"


    Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) […] "Un segno è una percezione che consente la conclusione dell'esistenza di una non -percezione. Un segno può stare per una cosa (res) o un'idea (conceptio, idea, cogitatio)". Leibnitz ha visto l'importanza della semiotica come teoria dei segni visivi (per distinguerli dai segni verbali) e ha fissato le strutture più avanzate per una moderna educazione al design […]
    Comunicazione:  dal latino communis, "comune a molti o a tutti", il termine comunicazione indica in generale l'attività del comunicare: esso si applica a ogni processo consistente nello scambio di messaggi o di informazioni, attraverso un canale e secondo un codice, tra un sistema (animale, uomo, macchina) e un altro della stessa natura o di natura diversa. [...]
    “Un dizionario dei gesti italiani è divertente e utile, tanto più se pensiamo che gli italiani, appunto, sono conosciuti in tutto il mondo perché si esprimono, oltre che con le parole, anche con i gesti”
    Bruno Munari  Il dizionario dei gesti italiani, Adnkronos Libri,  1994
    […] Lo sviluppo dei sistemi di comunicazione e di informazione ha conosciuto, negli ultimi due decenni del Novecento, un'accelerazione impressionante, destinata ad avere ripercussioni di grande portata sulla vita economica e politica, oltre che sul costume e sulla cultura. Alcuni ritengono anzi che questo sviluppo stia trasformando in profondità le stesse basi biosociali della conoscenza e del pensiero umano. […]
    Nel 1964 l’opera “Understanding media” di McLuhan, sostiene tesi attuali soprattutto in riferimento al computer e alle prospettive della comunicazione interattiva.
    […]L'idea più originale e teoricamente produttiva di McLuhan è certo stata quella dei media come protesi, ossia estensione del sensorio umano nell'ambiente e come mezzo di interazione con esso. Una concezione che ha le sue radici nella tradizione di pensiero americana rappresentata dal pragmatismo e che McLuhan ha rielaborato in maniera originale. Egli sosteneva inoltre che la comunicazione elettronica rende "immateriale" il nostro corpo, dilatandolo nell'etere; e che questo fenomeno genera una "guerra dei media", come mostravano, già alla fine degli anni settanta, le nuove forme di terrorismo che si servivano della televisione per diffondere i loro messaggi. Infine, un'altra idea di McLuhan che è stata largamente ripresa è quella secondo cui la comunicazione elettronica, data la sua velocità e la possibilità di far circolare le informazioni quasi in tempo reale, rende il mondo un "villaggio globale".
    […]Accenti ottimistici dominano invece nel pensiero dell'americano Nicholas Negroponte, direttore del Media Lab presso il Massachusetts Institute of Technology, una tra le più note figure di guru dei media, che predice l'avvento della "società digitale" […] Un caso emblematico di proiezioni future che hanno suscitato brillanti discussioni, ma che oggi debbono venir ripensate criticamente, è rappresentato dalla tesi sostenuta da Joshua Meyrowitz, secondo cui i nuovi media, in quanto consentono di avere scambi e stringere relazioni personali senza necessità di essere fisicamente presenti, porteranno alla "perdita del senso del luogo"[…]

    immagine 1: soggetto ed elaborazione di Angela Branca

    domenica 19 gennaio 2014

    Lista della Spesa di Michelangelo: un linguaggio universale ed un progetto semplice - 


    ok. straordinario
    ho corretto, impaginato etc. è perfetto, valido, interessante, va in bibliografia di approfondimento oltre che in Food design & Grosery list.
    cp
    Come per la progettazione del riso verde non si può mettere la pentola sul fuoco senza l'acqua o preparare il condimento dopo aver cotto il riso. 
    Se però c’è qualcuno capace di dimostrare oggettivamente che è meglio cambiare l’ordine di qualche operazione, il designer è sempre pronto a modificare il suo pensiero di fronte all’evidenza oggettiva, ed è in questo modo che ognuno può apportare il suo contributo creativo nella strutturazione di un metodo di lavoro che tende, come si sa, a raggiungere il massimo risultato con il minimo sforzo.
    Bruno Munari, Da cosa nasce cosa, editori Laterza, Roma, 2005, pag.60
    Anche una semplice lista della spesa destinata a un servo analfabeta può celare un progetto e un ingegno da designer.
    Una lista della spesa è un progetto che condurrà alla realizzazione finale del cucinare, ma che in questa fase si può definire ancora flessibile: la scelta dei prodotti varia e una volta stabiliti dovranno essere acquistati più o meno contemporaneamente per completare un certo tipo di vivanda. 
    A questo punto, i punti fissi sono i prodotti scelti per desinare e le fasi di lavorazione. Tuttavia può variare il metodo di lavorazione e ogni componente ancora potrà essere combinato, manipolato, soggetto a più sperimentazioni.
    Immagine 2- schema di Bruno Munari per il progetto di preparazione di riso verde
    Legenda:
    P= Problema; 
    DP= Definizione del Problema; 
    CP=Componenti del Problema; 
    RD= Raccolta Dati ; 
    AD= Analisi dei Dati; 
    M= Materiali Tecnologia; 
    S= Sperimentazione; 
    M= Modelli; 
    V= Verifica; 
    S= Soluzione.
    L’analisi della lista della spesa di Michelangelo mi conduce alla considerazione di diversi aspetti.
    Primo aspettola memoria
    Foto 3 - testo di Hermann Ebbinghaus,
    Un contributo alla Psicologia sperimentale
    Certamente il disegno ha un linguaggio universale, è una forma di comunicazione comune, permette di descrivere oggetti, di spiegare condizioni, di raggiungere un contatto anche laddove la lingua attraverso le parole non riesce. Quindi, sicuramente il pratico Michelangelo, noto anche per il suo acume, avrà ingegnato questa soluzione per risolvere i problemi di lettura, e aggiungerei memoria, del servo. Sottolineo quest’ultimo fattore (la memoria) perché, osservando attentamente La lista, non tutti i nomi corrispondono a un disegno esplicativo: “tortelli”, “quartuccio di bruschini”, “spinaci”, oppure non tutti i nomi sono espressi da un disegno esattamente corrispondente: “due minestre di finocchio” sono rappresentate da due scodelle colme di cibo.
    Alla fine dell’Ottocento un filosofo e psicologo tedesco,Hermann Ebbinghaus, sperimentò una serie di studi sulla memoria e sull’apprendimento e l’associazione legata al processo di memorizzazione, teoria ripresa e contraddetta dagli psicologi della Gestalt nei primi anni del Novecento.
    Immagine 4 - studio di percezione: più punti vicini vengono associati a una forma
    Quest’ultimi sostenevano che la memoria fosse strettamente connessa alla percezione e all’esperienza: la percezione visiva di singoli elementi, ad esempio dei punti, può portare al riconoscimento di una forma più o meno complessa: stella, etc. 


    Immagine 5 - qualunque siano le diverse forme
    la mente considera una forma predominante
    Pertanto è probabile che, pur non conoscendo ovviamente queste cognizioni, Michelangelo le abbia intuite e, per il cibo non corrispondente ad alcun disegno, abbia stabilito di inserirli per ultimi nella lista: “tortelli”, perché il servo potesse ricordare che quell’ultima parola fosse proprio “tortelli”.
    Ne consegue il Secondo aspetto: la fantasia del servo e di Michelangelo.

    Il prodotto della fantasia, come quello della creatività e della invenzione, nasce da relazioni che il pensiero fa con ciò che conosce […]. La fantasia quindi sarà più o meno fervida se l’individuo avrà più o meno possibilità di fare relazioni. Un individuo di cultura molto limitata non può avere una grande fantasia, dovrà sempre usare i mezzi che ha, quello che conosce, e se conosce poche cose tuttalpiù potrà immaginare una pecora coperta di foglie invece che di pelo.”
    Bruno Munari, Fantasia, Editori Laterza, Bari, 2006, pag. 29 dalla riga n 1 alla riga n 30
    immagine 6
    immagine 7
    immagine 8
    immagine 9








           







    Immagini 6 -7- 8- 9- Esperimento di Bruno Munari con ventuno punti

    Il problema basilare quindi, per lo sviluppo della fantasia, è l’aumento della conoscenza, per permettere un maggior numero di relazioni possibili tra un maggior numero di dati. Questo naturalmente non significa che, automaticamente, una persona molto colta sia anche una persona con molta fantasia.”
    Bruno Munari, Op.cit., pag. 35 dalla riga n 4 alla riga n 9.
    Terzo aspetto: informazioni storiche e geografiche
    Immagine 10 - disegno di "salama"
    della lista della spesa di Michelangelo
    L’analisi di questo foglio dice di cosa si cibasse Michelangelo e, soprattutto, rappresenta un’informazione su quale fosse il cibo consumato nel Cinquecento, per taluni aspetti anche come si accostassero i sapori, e dà indizi di alimenti che conducono alla conoscenza che si tratti di cibo italiano, come il vino Bruschino o il salame tipico.
    Quarto aspetto: riuso
    Immagine 11 - foglio della lista tripartito e in cui traspaiono scritte del retro 
    Il foglio considerato viene riutilizzato più volte, per più liste della spesa e il retro del foglio lascia intravedere altre scritte di altro genere.
    Quinto aspettoil Food design
    Immagine 12 - progetto di tortellino
    Tutti i su citati aspetti riconducono al Food design: il cibo schizzato da Michelangelo che già è progetto, e fantasia,  creatività, ed invenzione  permette la produzione di qualcosa di nuovo e aiutano il servo alla associazione mentale e alla comprensione; il cibo, come il disegno, è un elemento che accomuna gli uomini, e al tempo stesso esso può indicare una determinata localizzazione geografica, la culturadelle popolazioni locali. 
    Il Food design si avvale di studi progettuali e ricerche tecnologiche ed alimentari che precedono la produzione.
    Immagine 13 - progetto di pasta del designer Mauro Olivieri
    Il risultato sono manufatti di uso alimentare che, salvo per le materie prime utilizzate e per la finalità del prodotto stesso, sono del tutto identici a un prodotto di disegno industriale, sia per quanto riguarda il percorso progettuale, sia per quanto riguarda il processo produttivo.
    […] Gli Atti Alimentari sono dunque il luogo in cui si inverano i valori fondamentali di una epoca e di una cultura tanto che attraverso il loro studio è possibile delineare le caratteristiche di una cultura, ma non è possibile il processo inverso.[…] Sono un sistema complesso strutturato come un linguaggio. In quanto tale essi sono suscettibili di progettazione negli elementi grammaticali (morfologia dei segni), sintattici (relazioni interne tra segni), semiotici (relazione tra segni e gli oggetti a cui si riferiscono) e pragmatici (relazione tra il sistema dei segni e il parlante) ovvero possono essere pensati nella prospettiva di un obiettivo condiviso, possono essere quindi, trattati come scientifici e di fatto progettati. Progettare gli Atti Alimentari significa modellare risposte consapevoli attorno ai bisogni espressi dalle tre componenti del suo sistema mediando tra mondo e corpo. Poiché l'uomo è sempre il prodotto dell'ambiente e dell'educazione e ogni molecola di cibo che introduce nel suo corpo porta sempre e inevitabilmente con sé una particella di mondo. La Progettazione degli Atti Alimentari implica la capacità di gestione delle produzioni tecniche che l’uomo ha messo in atto per superare lo stato di natura, la conoscenza della cultura e dei linguaggi secondo cui rappresenta se stesso e la struttura della società in cui essi acquistano senso creando l’identità.
    Foto 14 - posate ergonomiche di Gio Ponti per la Krupp italiana, Milano, 1951
    Si può definire Food design la progettazione (e quindi tutto ciò ad essa legata: ricerche alimentari, antropologiche, comunicative, psicologiche e pratiche) del prodotto alimentare finito, o parte di esso, alla quale viene associata, come avviene in ogni campo della progettazione e produzione in massa, lo studio dei sistemi produttivi e distributivi e dei relativi supporti correlati utili al consumo e alla fruizione dei prodotti agro-alimentari in una prospettiva sia culturale che materiale. A questi si aggiungono sistemi di comunicazione e promozione del prodotto finito, servizi e eventi correlati, frutto di marketing o esigenze aziendali.”
    Foto 15- Enrique Sardi, il pasticcere Lello Parisi e il Team Lavazza
    Foto 16 -  vasi ottenuti da riciclo di buccia d'arancia
    Quello del Food design è quindi un progetto realizzato con il cibo e include tutto ciò che riguarda il mondo del cibo: tiene conto dell’esperienza sensoriale del gusto e della vista, oppure permette di realizzare gli strumenti utili per cucinare o per consumare. Permette di riciclare il cibo per realizzare nuovi prodotti (come le decorazioni), e gioca con il riconoscimento (attraverso la memoria) di oggetti gradevoli, elaborati con il cibo stesso. 
    Non tralasciando che anche il packagingprogettato per avvolgere il cibo spesso viene riciclato.
    Fonti foto
    1- http://www.daringtodo.com/lang/it/2011/10/14/grandi-mostre-michelangelo-e-raffaello-nella-roma-del-500/
    3-http://www.barnesandnoble.com/w/memory-a-contribution-to-experimental-psychology-hermann-ebbinghaus/1103341399?ean=2940015692525
    14- http://diegoterna.wordpress.com/2012/04/25/il-design-spiegato-a-me-stesso-3/
    15- http://www.buoni-pasto.it/cookie-cup-per-un-sabato-in-dolce-compagnia/
    16- http://www.architetturaecosostenibile.it/design/arredamento/buccia-arancia-scarto-riciclo-751.html

    Fonti immagini
    2-  Bruno Munari, Da cosa nasce cosa,  editori Laterza, Roma, 2005, pag. 62
    4 - http://www.lettere.unimi.it/dodeca/bozzi/cap2pb.htm
    5- http://www.timetocomm.com/news/teoria-della-gestalt/
    6-7-8- 9- http://design-matin.com/munari-point-trait-chaise/
    10- 11- http://deepsdesignbyceciliapolidori2-2.blogspot.it/p/a.html
    12- http://www.finedininglovers.com/photo/art-design/food-design-pasta/pasta-design-tortellini/
    13- http://www.pastificiodeicampi.it/blogs/mafaldina/2013/01/food-design-ecco-i-campotti-by-mauro-olivieri.html

    Marina Arillotta - 


    lunedì 13 gennaio 2014


    Gae Aulenti, architetto designer, donna DEEPS Design: Gae Aulenti, architetto designer, donna 

    doodle di Google dedicato a Gae Aulenti & Pipistrello
    post perfetto! ecco un'allieva che oltre le sue indiscutibili capacità, dimostra di aver letto, osservato e seguito temi, aspetti, linee e modalità del corso.
    bravissima! ripeto: post interessantissimo, magistrale, una chiave  e resoconto del lavoro e l'esempio di Gae Aulenti e della nostra storia: ciò che siamo, che potremmo o dovremmo essere, ciò che non riusciamo ad essere. va in 
    inserisco il doodle di Google perché in aula a dicembre l'abbiamo, anzi l'avete ricordato: eravate in grado di riconoscere il riferimento. fu per me un momento di grande gioia e commozione.
    cp
    Gae Aulenti, architetto designer, donna
    Foto 1
    "La chiamavo la leonessa. La prima volta era capitato, se non ricordo male, a un convegno o in un' intervista. Qualche giorno dopo mi chiamò a Parigi. Sono la leonessa, mi disse con la sua voce arrochita dal fumo. Ridemmo.”[...]Renzo Piano conobbe Gae Aulenti quando lei era al Politecnico di Milano, assistente di Ernesto Nathan Rogers. "Erano i primi anni Sessanta, io lavoravo già con Franco Albini, ma per la cattedra di Composizione, tenuta da Rogers […].La incontrai allora". Una donna in un mondo maschile. […]  Avete mai lavorato insieme? “No. Il suo stile in architettura non è il mio. Ma la considero comunque una maestra per il suo metodo professionale, per la cura dei materiali, del dettaglio. E poi per la sua presenza civica, per il modo in cui le sue competenze erano al servizio di una causa civile” […] “E poi mancherà la sua presenza civica. Il suo impegno politico, le sue battaglie per una città giusta e pianificata?[…] “Direi che Gae aveva un tratto che andava oltre lo schieramento politico. Era, appunto, civismo. Una virtù poco praticata. Forza ed eleganza insieme. Una vera leonessa.
    (Francesco Erbani, Renzo  Piano: hanno provato a farci litigare ma per me lei sarà sempre la leonessa”, la Repubblica, 02 novembre 2012, 38 sez. cultura http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/11/02/renzo-piano-hanno-provato-farci-litigare-ma.html )
    Gaetana Aulenti, detta Gae,  nasce in provincia di Udine, a Palazzolo della Stella, il 4 dicembre del 1927, da una famiglia di origini meridionali, papà commercialista di origini pugliesi e madre napoletana, Gae Aulenti inizia a frequentare il Liceo artistico di Firenze, ma poi torna al Nord dove studia privatamente. "Prestavo allora dei piccoli servizi alla Resistenza,[…]si fidavano di me e qualche volta portavo fuori dai blocchi le missioni inglesi fingendo di andare in camporella. A Biella ero amica di due sorelle ebree che sparirono da un giorno all'altro. La coscienza civile nacque lì".(Da: Ansa, “Gae Aulenti, le sue opere più famose”, Panorama, 02 Novembre 2012, http://cultura.panorama.it/arte-idee/gae-aulenti-morta-architettura-opere)
    “L'architettura è un mestiere da uomini, ma ho sempre fatto finta di nulla". 
    Una frase emblematica pronunciata dall'architetto Gae Aulenti,[…] che mostra, la sua ironia, la sua grande umanità e la sua proverbiale timidezza. (Da: Espazium, “In ricordo di Gae Aulenti”, 01 novembre 2012,https://www.espazium.ch/archi/news/ricordo-di-gae-aulenti )
    Foto 2
    Scomparsa lo scorso novembre 2012 all’età di 84 anni, Gae Aulenti rappresenta una delle figure centrali della ricerca architettonica della storia contemporanea. […]Maestra della linea, la Aulenti si è distinta nel campo dell’allestimento e del restauro architettonico, nell’architettura d’interni, specializzandosi in design industriale, e in campo urbanistico. Allieva diErnesto Nathan Rogers, aveva ereditato pienamente il suo insegnamento, al punto da considerare arredamento e urbanistica come gli estremi dell’attività di un architetto moderno. Non a caso l’attività della ‘Signora dell’Architettura’ ruotava attorno a queste due polarità ,ottenendo riconoscimenti in entrambi i campi, dall’architettura, al design e alla progettazione degli spazi. Alla fine degli anni ’60, l’architetto e designer italiana firmava due negozi, a Parigi Buenos Aires, e cominciava così a far conoscere nel mondo il suo nome e il suo stile, associandolo a una delle aziende più illuminate del tempo, l’Olivetti. Designer di grido, divenne scenografa di Luca Ronconi, costumista per il Wozzeck di Alban Berg alla Scala, musa di Karlheinz Stockhausen e alla fine venne promossa “interior decorator” di casa Agnelli. Severa e rigorosa, maschile nei tratti, i capelli tagliati come quelli dell’Auriga di Delfi, in Francia la chiamavano la “Magicienne des formes”, miscelatrice di simmetrie e asimmetrie.”‘Dal particolare al generale, dal cucchiaio alla città” era il motto del maestro Ernesto Nathan Rogers, e lo fece suo. (Di: Clara Salzano, “La mostra tributo di Gae Aulenti al Triennale Design Museum”, 8 maggio 2013, http://www.fanpage.it/la-mostra-tributo-a-gae-aulenti-al-triennale-design-museum/ )
    Dalla matita di Gae Aulenti sono nate opere come il Museo d’Orsay di Parigi

    Il museo parigino è famoso per tre motivi: uno perché ospita i maggiori esponenti dell’impressionismo pittorico come Edouard Manet, Paul Cézanne, Paul Gauguin, Claude Monet, Pierre-Auguste Renoir, Edgar Degas, Vincent Van Gogh. Il secondo motivo è perché si trova di fronte al famigerato Louvre. Il terzo perché è stato creato da un architetto italiano, un architetto donna.  (Da: 9colonne, “Gae Aulenti, l’architettura è donna”,http://9colonne.it/adon.pl?act=doc&doc=50458#.UsWs1fTuJ8E  )
    Foto 4
    Del singolare percorso di Gae Aulenti nella storia del design industriale, rimangono tracce indelebili come la sedia a dondoloSgarsulv  prodotta nel 1962 da Poltronova (foto 4) o il tavolino in vetro con rotelle disegnato nel 1980 per Fontana Arte (foto 5) o ancora la lampada da tavolo Pipistrello per Martinelli Luce (1963, foto 6). Ha lavorato fino all’ultimo e tra i suoi ultimi progetti ci sono quello per l’Istituto Italiano di Cultura a Tokyo (2006), la ristrutturazione e       ampliamento dell’aeroporto San Francesco d’Assisi diPerugia e, recentissimo, il restyling dello storico Palazzo Branciforte, nel cuore del centro storico di Palermo, restaurato e restituito alla città come polo culturale e polifunzionale. 
    Foto 5
    Foto 6









    (Da: Leonardo, “Con Gae Aulenti se ne va un simbolo dell'architettura italiana”,http://www.leonardo.tv/articoli/con-gae-aulenti-se-ne-va-un-simbolo-dellarchitettura-italiana/)
    “Bisogna progettare per un senso collettivo, non per una blasfemia individuale”
    ( Gae Aulenti, da: Alberto Apostoli, “86° Anniversario della nascita di Gae Aulenti” , Il blog di Alberto Apostoli, 04 dicembre2013,http://www.albertoapostoli.com/blog/news/86-anniversario-della-nascita-di-gae-aulenti)
    G.L.R. Parliamo di design. Lunedì 3 maggio nello studio del suo amico architetto Emilio Battisti si è parlato di design conAlessandro MendiniAlberto Meda e Enzo Mari […]Il primo ha dichiarato che Oggi il disegno industriale non ha più alcun valore, di parere diverso Meda: Non è vero. L’oggetto industriale riesce ancora ad emozionare. Il più critico è stato Mari: Il design è finito, si è ridotto a quattro carabattole, non siamo capaci di fare più niente, dobbiamo abbassare la testa, lo sguardo e lavorare, dobbiamo lavorare come chi fa i prosciutti in una fabbrica, scendere dal piedistallo ed essere concreti. Lei che cosa pensa del design di oggi?  
    G.A. Oggi i giovani lavorano molto, ma lavorano sulle immagini… come le archistar. Fanno tutto in stile. È tutto decorazione, non c’è più il disegno di una lampada o di una sedia prodotta dall’industria. Insomma questo Novembre –Fabio Novembre, designer e architetto nato a Lecce nel 1966 - ha fatto un culo di una donna – sedia Her, 2008 – ha in mente? Ecco allora io gli dico vaffanculo… tu scrivilo, se vuoi. […]Credono di essere furbi… 
     G.L.R. È una provocazione?                                                                                                                      
     G.A. No, è una stupidaggine. Va detto il nome vero di queste cose stupide. Sono stupidaggini.                  
     G.L.R. Come dovrebbe essere il design di oggi?                                                                      
     G.A. Vanno ricercate nuove forme, ma sempre pensando alla produzione, creare per un senso collettivo delle cose, non per un senso di blasfemia individuale…                                                        
    G.L.R. E rispetto a quello che hanno dichiarato Meda, Mendini, Mari… lei come si colloca?     
    G.A. Mari è un vero studioso e quando dice così protesta per come vanno le cose, però ha ragione. Mendini che è una persona molto intelligente e simpatica, ha sempre tentato di emergere e continuerà a farlo con la sua intelligenza e con le sue capacità.                                
    G.L.R. Il disegno industriale esiste ancora?                                                                          
    G.A. Non c’è più, ha perso un po’ il senso. Guarda che c’è anche un’altra differenza. Noi per esempio prima eravamo architetti che facevano design, oggi i designer non sono architetti quindi non hanno il senso dello spazio, non hanno un senso… una lampada va disegnata per uno spazio non per se stessa. 
     G.L.R. È importante la multidisciplinarietà?                                                                               
     G.A. È ancora il contesto del design, è ancora una questione di contesto sia fisico, nello spazio, che concettuale.
    (Greta La Rocca, “Gae Aulenti -Bisogna progettare per un senso collettivo, non per blasfemia individuale-” , 24 giugno 2010, http://www.immobilia-re.eu/gae-aulenti-bisogna-progettare-per-un-senso-collettivo-delle-cose-non-per-un-senso-di-blasfemia-individuale-2/)
     “La luce è impressionismo”
    A. Di cosa dovremmo parlare?
    R. Potremmo parlare di luce, di cultura della luce, di luce e architettura di luce nell'architettura; tu lavori come designer e come architetto che rapporto c'è tra le tue lampade e le tue architetture?
    A. Mah ...io non ho quasi mai disegnato lampade da sole, le mie lampade sono una conseguenza, io ho sempre disegnato lampade per luoghi specifici, alcune poi sono entrate in produzione...
     R. Non hai mai disegnato senza pensare ad un luogo?
     A. Poco… ho disegnato un sistema per uffici... i "Sistemi Tre", ma tu non la ricorderai, in genere le mie lampade sono legate a situazioni precise, a spazi e tempi di progetti d'architettura....
    R. Allora sei una designer un pò casuale, un pò occasionale rispetto agli specialisti della luce, ai tecnologi dell'illuminazione...
    A. Sì, anche se però c'è sempre alla base una riflessione sull'uso che comporta una riflessione tecnica, come per questa qui...
    R. Quale?
    A. Questa qui sul tavolo... si chiama... oddio non mi ricordo.... si chiama Pietra, è una luce che io considero una luce da ufficio,... non è una luce per lavorare, ma una luce per "parlare" intorno ad un tavolo, perché non sempre si lavora leggendo o scrivendo, si lavora molto anche parlando e allora ho pensato a una luce da ufficio per illuminare discretamente un colloquio...
    R. Pensi più partendo da situazioni che da prestazioni tecniche o illuminotecniche?
    A. Io penso che noi lavoriamo con tre cose: gli spazi, la luce soprattutto diurna, ma anche notturna, e l'architettura; poi c'è la luce come disegno, come strumento di puntualizzazione architettonica e la luce come fatto funzionale integrato come nei musei, dove fa parte della progettazione, non solo del desiderio, ma della necessità.[…]
    R. Qual'è la prima lampada che hai disegnato?
    A. La "Giova"(foto 7) che è un vaso su una lampada, una pianta sopra una luce, e poi la "Pipistrello" .

    Foto 7
    R. Che mi sembrano appartenere a due mondi diversi.
    A. Perché?
    R. La prima è una sovrapposizione di geometrie, tre bolle tutte trasparenti, quasi purista, la Pipistrello è invece quasi espressionista, molto disegnata un po’ neoliberty....
    A. Neoliberty...mmh, non direi.
    R. Dico neoliberty come rifiuto di linearità e di geometrie fredde, in fondo è una lampada calda con le ali nere un po’ animalesche...[…]
    R. Parlando di design di lampade hai detto che è morto "l'abat-jour"...che cosa vuoi dire che non si può fare, non serve più...?
    Foto 11
    A. No, non è morto, l'abat-jour si può fare bisogna vedere come, perché il fatto è che con il Movimento moderno le luci sono diventate luci più dirette, piene, chiare, non mediate...direi quasi luci tecniche che non sprecano un lux; invece quello che si chiede e si chiedeva all'abat-jour è una luce corretta, mediata che vuol dire proteggerti dalla luce e non tanto moltiplicarla verso una direzione precisa con una funzione precisa. L'unica lampada moderna che si sia posta questo problema è stata quella di Noguchi, quella di carta, quella Giapponese.[…]
    R. Vuoi dire che spesso è più utile vedere poco per...
    A. Per indovinare molto, per immaginare, se non vedi i limiti di una stanza in penombra la puoi immaginare e sentire molto più grande.
    R. Come ti senti rispetto all'evoluzione tecnologica nel campo illuminotecnico[…]?
    A. Non mi interessa tanto...voglio dire che l'avanzamento tecnologico ha una sua necessità fondamentale ma non credo che una attenzione preminente a questo mondo faccia automaticamente nascere forme nuove. […]E poi credo che il vero protagonista involontario di questo "avanzamento" tecnologico sia il dimmer...
    R. Il dimmer?
    A. Sì perché con le nuove tecnologie è tale la quantità di luce che può uscire da queste microlampadine che alla fine è sempre troppa a allora giù coi dimmer per ridurla perché abbaglia è troppo sparata, si vedono le rughe in faccia, non aiuta la concentrazione... e invece il progetto luminoso è un progetto di mediazione, di sottrazione.
    R. Quindi vorresti fare lampade che fanno poca luce?
    A. Vorrei fare delle lampade che anche se ne fanno un po’ meno vadano bene lo stesso.
    R. Come ti muovi tra i due estremi contemporanei del design minimale e di quello espressivo estroverso?
    A. Dunque, io cose minimali è molto difficile che ne faccia perchè io non ricerco il minimalismo ma semmai la semplicità che è una cosa molto differente. Voglio dire che non è che con delle forme espressive tu non riesca a raggiungere la semplicità, anzi io credo che questa sia la cosa più difficile e più bella da raggiungere. Il minimalismo non mi interessa e non mi appartiene perchè io ritengo che un oggetto debba parlare forte di un linguaggio possibile per raggiungere il maggior numero di persone...anche se poi ne raggiunge sempre la metà.
    R. Però il tuo tavolo di vetro con le ruote è minimale , è quasi un azzeramento di linguaggio, come lo spieghi?
    A. Non lo spiego, è un'idea che quasi non ho cercato e stata l'intuizione di un giorno che in fabbrica in Fontana Arte ho visto trasportare le lastre di vetro su dei piani di legno con ruote industriali, e ho pensato che si poteva togliere il legno e c'era un tavolo già fatto, è stato quasi obbligatorio, direi un atto di "non disegno" non un disegno minimale voluto. Infatti non ho mai fatto più niente di simile; perché ho una attitudine più sperimentale legata alle cose, al vedere cosa succede lavorando su materiali diversi , sia vecchi che nuovi... La mia caratteristica è quella di disegnare molto, forse troppo, mentre il minimalismo è concettuale lavora più sulle idee quasi che la materia sia un accidente... […]
    R. E la casa?
    A. Cosa vuoi sapere?
    R. Nella casa nell'ambiente domestico come entra la nuova tecnologia, l'evoluzione illuminotecnica? in fondo la vera rivoluzione nel design l'hanno fatta le lampadine.
    A. Non saprei, io continuo a pensare che le nuove lampadine hanno anche deformato il discorso luminoso nelle case trasformandole in uno spazio con tanti punti di luce, che mi ricorda un po’ le processioni, le madonne; tante luci diverse come se per ogni funzione ci debba essere la lampadina, mentre poi sappiamo che una stessa luce cambia a seconda di quello che gli mettiamo attorno. Per esempio io ho sempre odiato quei faretti tecnici americani direzionali, che illuminano per punti invece di diffondere; appunto il contrario di quello che fa l'architettura con la luce. Io sono contro l'abbagliamento e tanto più nella vita quotidiana mi sembra che certe nuove luci hanno trasformato nei salotti la conversazione in un interrogatorio. […]
    R. Insomma non bisogna dimenticare la vecchia tapparella?
    A. Meglio ancora la persiana, è più semplice, e ricordarsi che di giorno una finestra è una bellissima lampada.
    (Da: Franco Raggi, "Architettura e luce mediata. " Colloquio tra Gae Aulenti e Franco Raggi sulla luce in architettura, il neoliberty, i musei, il minimalismo, il teatro e le persiane”,  23 maggio 1991, http://www.apilblog.it/wp-content/uploads/2012/11/Intervista-Gae-Aulenti1.pdf )
    Lampada Pipistrello 
    L’humus in cui germina la lampada Pipistrello, disegnata da Gae Aulenti nel 1965 per Martinelli, è fervido. Gli anni '50 e '60 per l'esordiente architetto sono densi di esperienze ed iniziative. In realtà poca progettazione architettonica, ancora meno le realizzazioni, ma tante frequentazioni, influssi e collaborazioni e molto industrial design, in particolare nel settore illuminotecnico. […]Lanciata sul mercato nel 1967, la Pipistrello venne commercializzata in tutto il mondo, grazie alla visibilità che ebbe col 1972, quando non solo la Aulenti - che poté presentare oggetti di industrial design ed allestimenti- ma tutto il design italiano  (rappresentato nell'esposizione dai progetti più noti di Zanuso, Sottsass, Pesce, Sapper, Archizoom, ecc..) si affacciò alla ribalta mondiale: il merito fu della mostra Italy: The New Domestic Landscape, tenutasi al MoMA di New York. 
    Il progetto della Pipistrello partì in sordina e per un anno rimase nei cassetti di Elio Martinelli. Difficile infatti, secondo i resoconti di Emiliana (la figlia di Elio) risultava l'industrializzazione del fusto telescopico, così come la forma complessa delle falde del diffusore, ad ali di pipistrello, che non era facile realizzare per gli stampaggi dell'epoca
    Esemplare nella lampada della Martinelli l'approccio che Gae usava nella progettazione. Mai ‘regolare’ e con l'introduzione ogni volta di linguaggi nuovi, sorprendenti, spesso spaesanti. Nel progetto, dimostra di saper tessere legami sottili con il passato, inserendo nel contempo, elementi di discontinuità.
    Foto 9
    Foto 12
    Foto 10

    Il punto di partenza era l'archetipo costituito dal modello delle abat-jours Tiffany (foto 11) e quelle pre-Bauhaus, che però stravolge. Il risultato raggiunto appare stupefacente, perché la linea della lampada esprime una modernità ‘diversa’ ed inaspettata, affatto convenzionale: l’andamento sinuoso, curvilineo, vagamente flamboyant del fusto telescopico e del ‘cappello’, effettivamente non può non ricordare il profilo di alcune lampade liberty. Il risultato, come dicevamo, è qualcosa di mai visto prima; eppure con la Pipistrello, c'è da riconoscere che mai lampada moderna fu più neoliberty.
    Foto 13

    Recentemente, il designer friulano concordò con la Martinelli alcune variazioni della lampada - divenuta nel frattempo un'icona - con la base in finitura alluminiocromato lucido, satinato e rosso carminio, mentre la sua riprogettazione in scala minore, l'attuale Minipipistrello(foto13) è del tutto estranea all'architetto friulano, che a causa dell'aggravamento delle condizioni di salute, non fu informata. Un'attenzione alla funzionalità della Pipistrello originaria, che si rivela versatile per il suo doppio utilizzo, sia come lampada da appoggio che come lampada da terra e da lettura qualora si fosse sollevato il fusto attraverso il pomello imitante un bulbo ad incandescenza posto sulla sommità del diffusore.
    Foto 15
    Foto 16
    foto 18
    Inizialmente era stata pensata da Gae per l'illuminazione di alcuni spazi commerciali trovò ambito e giusto risalto nei negozi della Olivetti di Parigi e di Buenos Aires allestiti proprio da Gae in quegli stessi anni (1965 e '67) e la vediamo sopra gli espositori da lei disegnati accostata ad un'altra lampada, di poco successiva, King Sun di Kartellaltro suo progetto. Infine, da segnalare l'epigono della Pipistrello. Gae progettò nel 1974 per laHarvey Guzzini un modello che presentava una forte continuità col modello di 10 anni prima, la Quadrifoglio (foto 18), della quale mantenne la concezione della struttura in acciaio e diffusore in metacrilato, sempre ripartito in 4 falde. L'estrema fluidità delle forme e l'attenzione ad alcuni dettagli decorativi (l'andamento floreale del fusto sdoppiato in 4 bracci - che per morbidezza di disegno quasi non pare acciaio) ne fanno uno degli oggetti più compiutamente liberty ideati dalla Aulenti. E tra i più amati dal pubblico considerando il successo commerciale che fu duraturo, tanto, che fece propendere l'azienda a declinarla in altre tipologie (terra e sospensione). (Da: Lot, “Classici del design: lampada Pipistrello”, 08 dicembre 2013http://www.arredamento.it/forum/viewtopic.php?f=28&t=113970)
    Fonti foto

    martedì 31 dicembre 2013


    l'Op Art e Panton &...

    Ho spesso detto, anzi non faccio altro che ripeterlo, che prendere un segmento temporale - gli anni '60 - è una forzatura, una condizione dovuta ai limiti di 8CFU di un corso, unico nel suo genere nel piano di studi, il Design, e che comporti necessariamente il dover parlare per frammenti, per spunti, per poter ritrovare le mode, il gusto, le scoperte, le invensioni, le innovazioni nostre e ricche ed i riferimenti, i precedenti, gli antefatti.
    Ovvio che ogni cosa prende e riporta ad altre relazioni, nessi, attinenze ed informazioni, e poi a paragoni, a confronti ed orientamenti, sino a comprenderne tutte le connessioni, le sequenze, la storia nel suo complessità, e lo studio.
    Ora Alessia, bravissima, stra-brava, ha creato, ha individuato, ha realizzato una connessione stupefacente tra l'Optical Art degli anni '6o e la Panton Chair, sempre di quegli anni, ed io non posso non assecondare la sua voglia di capire, scoprire, connettere, scrivere ed impaginare per bene  al fine di comunicarlo a voi tutti, né su queste istanze voglio costringere tutti gli altri, quindi costruirò un banner "Bibliografia dei bravi" o qualcosa di simile, mettendoci questi post della 2a piattaforma in modo che chi vuole vada, veda e scopra, perché i temi dilagano, lo dite in tanti, ad esempio Antonino Sinicropi da una citazione di Enzo Mari sull'Optical Art (Bruno Munari, Enzo Mari e l'Arte Programmata) era arrivato a Tinguely ed al Documentario The Responsive Eye, di Brian de Palma, 1965, che ora ritroviamo citato nel saggio di Alessia.
    Se, quindi, parliamo di Optical, impossibile, davvero credetemi! è IMPOSSIBILE non parlare di Marcel Duchamp, e a ruota di Man Ray, Salvador Dalì, e ho aggiunto una sequenza tratta da un film muto di Jean Coctueau e, di nuovo, ancora e ancora, le scoperte e le innovazioni di quei tempi nella fotografia, e quindi nel cinema, nella moda, e così via.
    Per tutti un ritratto di Dalì con ... gli occhiali che ben conoscete di André Courrègesquindi ho inserito alcuni link e queste immagini, vedere per credere se non ci sono i presupposti di collegamenti e riferimenti.
    ... ma questa è già una tesi di laurea!
    cp
    Marcel Duchamp - Anemic Cinema, 1926

    Man Ray  "Violon d'Ingres", 1924. Il soggetto è Alice Prin,
    in arte Kiki, modella,cantante di Montparnasse...
    Jean Cocteau Le sang d'un poète, 1930
    cfr.: 


    l'Op Art e Panton
    “It was a marvellous time. In the ‘60s you were knocked in the eyeballs. Everybody, everything was new.”
    E 'stato un momento meraviglioso. Negli anni '60 sfondano i  bulbi oculari. Tutti, tutto era nuovo.
    Diana Vreeland – Editor in Chief of US Vogue 1963 – 1971
    "Op Art in Fashion and Design/The Fashion Revolution of the 1960s", su Op-art.co.uk dal web: Op Art in Fashion and Design - http://www.op-art.co.uk/op-art-fashion/
    "Cos'é La Optical Art
    Foto 1
    L'Optical Art è un tipo di Arte Astratta,  strettamente legato ai movimenti dell'Arte Cinetica e dell'Arte Costruttivista. Il movimento conosciuto anche come OP-Art nasce intorno agli anni sessanta e approfondisce l'esame e lo studio dell'illusione bidimensionale. Nata utilizzando solo il Bianco ed il Nero, l'Optical Art ingloba in seguito anche i colori, sempre allo scopo di offrire allo spettatore opere in due dimensioni che danno l'impressione di movimento, di immagini nascoste o lampeggianti , oppure che si gonfino o si deformino." 
    Cos'é "La Optical Art ", su Turismo e Viaggi - Arte - Foto sfondi desktop - Cultura - Poesia - Musica - Libri dal web : Cos'é La Optical Art - http://www.settemuse.it/arte/corrente_optical_art.htm

    "Le due tecniche principali utilizzate [...] sono le prospettive illusorie e la tensione cromatica: protagoniste assolute sono le texture (o gradients) e i patterns, che concorrono a suggerire effetti tridimensionali, o addirittura suggeriscono il movimento. [...]
    Le opere Op sono anche definibili ottico-cinetiche nel senso che si include il movimento anche da parte del fruitore. Quando l'osservatore si sposta si ottengono effetti diversi."
    "L'Optical-Art", su Artisticamente, dal web: L'Optical-Art - http://www.artisticamente.biz/storia-dell-arte/periodi/optical-art/
    " I tempi dell'Optical Art
    Foto 2
    Gli artisti della Op Art, agli inizi degli anni Sessanta applicarono gli studi dalla Psicologia Percettiva al mondo artistico per realizzare opere con proprietà di illusione e distorsione ottica. 
    In origine il movimento Op Art venne criticato  considerando mancanza di originalità le loro applicazioni confrontandole con le opere dei Bauhaus, di De Stijl.  Nel 1965 dopo la mostra "The Responsive Eye"  tenuta a New York, la critica cambiò posizione accettando i lavori esposti appartenenti ad una nuova forma d'arte ed il termine Optical Art e Op Art divenne conosciutissimo sia in America che in Europa.  Negli anni Settanta la Optical Art contaminò alche il mondo esterno all'arte e i suoi motivi vennero utilizzati per decorazioni e nell'abbigliamento, specialmente nell'alta moda. "
    Foto 3
     "La Optical Art ", Op. cit. , dal web : Cos'é La Optical Art -http://www.settemuse.it/arte/corrente_optical_art.htm
    "[...]Il principio di partenza, geometrico, determina in chi osserva uno stimolo ottico dai risvolti psicologici. Esempi lampanti, i quadri in bianco e nero con vortici o spirali. Osservati per qualche minuto, prendono vita iniziando a muoversi... Miracoli degli effetti ottici. Con Verner Panton (1926-1998) la “psichedelìa” approda nel design. Il suo talento non si limita alla progettazione di sedie, ma fra il 1960 e il ’70 rivisita interni e ambienti con mobili curvi, tappezzerie alle pareti, sistemi d’illuminazione. Per la Mira-X, Panton disegna tessuti “optical” con cerchi neri e bianchi. Incredibili fascinazioni, che oggi riconquistano le collezioni di moda. E, scommettiamo, non durerà una sola stagione [...]"
    Eleonora Tarantino, "È di moda l'Op'Art", su Cool mag /Cool faschion&design, dal web: È di moda l'Op'Art - http://www.coolmag.it/fashion_design/art_fashion_design.php?id=1410

    Foto 4
    " Verner Panton (1926 – 1998) è stato un designer danese lungimirante e innovativo che si è guadagnato un ruolo di primissimo piano nella storia del design del secolo scorso, grazie al proprio rivoluzionario approccio al colore e ad un senso matematico della forma capace di trasformare la geometria in pura meraviglia. I suoi progetti che trovo più innovativi sono probabilmente quelli ispirati alle forme organiche – ipnotici viluppi di linee sinuose che sfuggivano a ogni precedente esperimento di design – ma in generale credo che la sua portata rivoluzionaria risiedesse nel suo temperamento caparbio e nel suo istinto sperimentatore. Panton era affascinato dalle moderne tecnologie che si affacciavano in quel periodo nel panorama produttivo ampliando le possibilità dell’industria del mobile e dei nuovi materiali, in primis la plastica, con cui volle – e fortissimamente volle – realizzare la prima sedia colata e stampata in un unico pezzo: l’immortale Panton Chair.  Se il futuro - una delle grandi ossessioni di quegli anni di rapido progresso tecnologico e sociale - veniva immaginato dai visionari dell’epoca come un mondo di infinite possibilità, ma anche di pericolose incognite, e veniva vissuto dall’uomo comune con un mix di curiosità e paure, per Panton invece il domani era un giardino da inventare, in cui coltivare un messaggio divertente, allegro e positivo."
    Francesco Catalano, "Il mondo di Verner Panton/ colore, forma e tecnologia/ come un designer...", parte prima, su Gorgonia/ il blog di F. Catalano, 28 ottobre 2012.
    VERNER PANTON: BIOGRAFIA E PROGETTI - http://www.gorgonia.it/hotel-ristoranti/progetti-verner-panton

    Foto 5
    "Quando la prima creazione di Verner Panton si presentò sul mercato fu subito chiaro che avrebbe segnato una rottura dei diffusi schemi interpretativi. La "Panton Chair", apparsa alla fine degli anni '60, stravolse le leggi del design. Era modellata su un unico foglio di plastica e non inneggiava alla sua funzionalità (come volevano i dettami del design dell'epoca), bensì la nascondeva a vantaggio della forma armoniosa e per la prima volta rendeva la plastica un materiale di pregio.
    Verner è stato un rivoluzionario dello "stile svedese", l'innovatore dei prodotti dalle linee essenziali e dai materiali poveri. L'idea di arredo per Verner Panton risiedeva nell'armonia di ogni elemento. Circondarsi di complementi di arredo piacevoli, semplici e caldi aiuta, secondo la sua filosofia, a sentirsi bene in una culla familiare comoda oltre che bella.
    Foto 6
    Il colore fece l'entrata trionfale nella progettazione, con uno stretto legame significativo, una precisa connotazione simbolica che lo rendeva imprescindibile dalla forma e dal materiale a cui si aggiungeva. Nei primi anni le sue opere vennero giudicate eccentrici esperimenti di stile, inutilizzabili opere d'arte... che avrebbero fatto, però, la storia del design internazionale.
    [...]Rese la plastica una materia nobile per il design [...]"
    Pamela Pinzi, "Verner Panton, il rivoluzionario",   su Luxuryonline, 4 Dicembre 2009,
    dal web: Verner Panton il rivoluzionario - http://www.luxuryonline.it/articoli/vedi/1393/verner-panton-il-rivoluzionario/

    "Panton Chair
    Design: 1958-1967 

    Foto 7
    La Panton Chair è forse l'oggetto di design  più noto di Verner Panton. La sua forma, che è tanto inusuale quanto è sorprendente, e le innovazioni nella tecnologia di produzione che sono legati a questo pezzo di arredamento ne hanno fatto un'icona della sedia di design nel XX secolo. Panton sembra avere sperimentato l'idea di un sedia a sbalzo realizzata in un unico pezzo di materiale già nel 1956, in occasione di un concorso di mobili dalla società di WK-Möbel. Ci sono schizzi dal 1958/59, che già prefigurano chiaramente la Panton Chair. Poco tempo dopo Panton aveva un modello in scala del suo concetto di sedia fatta in polistirolo che non era adatto per sedersi, ma l'avrebbe aiutato a trovare un produttore. Oggi questo modello, che viene spesso erroneamente descritto come un prototipo, fa parte della collezione del Vitra Design Museum e mostra differenze significative alla più tarda Panton Chair.  All'inizio degli anni Sessanta Panton entrato in contatto con Willi Fehlbaum, l'amministratore
    Foto 8
    delegato della Vitra, che ha indicato la sua disponibilità a sviluppare la sedia alla fase di produzione in serie, si trasferì con la famiglia a Basilea. Tuttavia,  è stato fino agli anni tra il 1965 e il 1967 che il lavoro di sviluppo sulla sedia è stata trainata in avanti intensamente. Nel mese di agosto 1967 la Panton Chair è stata presentata al pubblico per la prima volta. Da allora la sedia è stata prodotta in quattro versioni differenti da quattro diversi tipi di plastica e con l'ausilio di diversi tipi di tecnologie di produzione. C'erano due ragioni economiche ed estetiche per la modifica delle materie. 
    Foto 9

    Tutte le versioni sono state sviluppate in stretta collaborazione tra il produttore e Verner Panton. La storia della produzione della Panton Chair è la seguente: 
    -1967/68 la produzione in serie iniziale stampato a freddo, fibra di vetro rinforzata resina poliestere, dipinte in vari colori. Produttore: Herman Miller / Vitra 
    -1968-1971 il secondo modello della serie realizzata in poliuretano espanso rigido, verniciato in vari colori Produttore: Herman Miller / Vitra 1971-1979 il terzo modello della serie in polistirolo termoplastico colorato (Luran S). Le sedie fatte di questo materiale possono essere identificate dalle creste sotto la curva tra la seduta e la base. Produttore: Vitra, negli Stati Uniti fino al 1975 Herman Miller 


    Foto 10
    -La Panton Chair non era in produzione 1979-1983. 
    -1983 ad oggi seconda versione della sedia in poliuretano espanso rigido verniciato. Questa serie può essere identificata con la firma di Panton sulla base. Produttore: 1983-1990 Horn, a nome del gruppo WK, dal 1990 Vitra, dal 1999 questo modello è stato commercializzato con il nome di Panton Chair Classic. 
    -dal 1999 ad oggi giorno quarto modello della serie in polipropilene colorato. Produttore: Vitra 
    -2005 ad oggi giorno Panton Junior di polipropilene colorato (una versione più piccola della Panton Chair fatta di scalare per i bambini a partire dall'età di tre). Produttore: Vitra"  
    "Panton-Chair" su Verner Panton/Forniture ,
    dal web : Panton Chair - http://www.verner-panton.com/furniture/archive/phase/1833/

    "LA PLASTICA
    Foto 11
    Quando parliamo di sostanze "plastiche", dovremmo specificare che parliamo di plastica polimerica. Infatti con il termine materie plastiche, potremmo intendere le argille, ad esempio. L'accezione polimerica ci permette di stringere il cerchio sulle lavorazioni che coinvolgono la lavorazione di polimeri naturali, che porta alla formazione di polimeri artificiali (semisintetici). Il corno ad esempio, è proprio uno di questi materiali naturali che possono essere modellati "plasticamente": è un materiale termoplastico e veniva lavorato a pressione dopo il rammollimento, che avveniva attraverso il riscaldamento a secco o per immersione  in acqua bollente o con soluzioni alcaline. Si possono vedere oggetti in corno dal 1770, specialmente per la produzione di pettini.
    Nell'800 la gommalacca, ricavata dalla secrezione di un insetto della famiglia degli emitteri, era diffusa per realizzare piccoli oggetti come cornici, articoli da bagno, protesi dentarie, e fino al 1950 per produrre dischi grammofonici. Nel 1839 Goodyear inventò la tecnica di vulcanizzazione della gomma naturale (poliisoprene) coagulando il lattice ricavato da piante tropicali, come l'Hevea Brasiliensis. Solo nel 1910, però, vengono prodotti i primi pneumatici ricavati da semplici idrocarburi (gomma sintetica), dalla Hood rubber company e dalla Diamond Rubber Company.
    Nel 1856, partendo dalla cellulosa, Alexander Park  diede vita alla Parkesine (nitrocellulosa), mentre i fratelliHyatt nel 1868 perfezionarono la termoplastica celluloide (nitrato di cellulosa). Le bambole in celluloide sono forse il primo esempio di identificazione materica della plastica, non quindi un'imitazione, ma un nuovo materiale con proprie qualità estetiche.
    Nel 1909 il chimico belga Baekeland produce la bakelite (resina fenolica), attraverso la condensazione tra fenolo e aldeide formica. Si tratta del primo polimero sintetico rigido (termoindurenti sintetici), spesso completato con alcuni additivi dalla funzione riempitiva come  farina di legno  o grafite. Questo materiale ha caratterizzato la produzione di oggetti nel periodo tra le due guerre, svariati erano i prodotti in Bakelite, dai telefoni, agli interruttori elettrici e alla componentistica per le automobili.
    La ricerca nel campo delle materie plastiche si sviluppò grazie ai progressi della chimica nella prima metà del XX secolo, quando si arrivò alla sintesi di polimeri sintetici da idrocarburi: nel 1934 vengono scoperte le resine melamminiche (termoindurenti) e nascono le prime produzioni di termoplastici come PVC e polietilene."  
    "Panton Chair", su LAB12  3dm1/Flipcard , dal web: Panton Chair -  http://laba12-3dm1.blogspot.it/2012/01/panton-chair.html


    Fonti fotografiche:

    Alessia Chillemi
    corretto e ripostato cp:  
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    martedì 31 dicembre 2013

    Bruno Munari e la Lampada Falkland

    Foto 1
    "Famosissimo artista dalla personalità eclettica e dalla fervida immaginazione, Bruno Munari nasce Milano, ed è stato uno dei massimi protagonisti del design e della grafica del XX secolo, dando contributi fondamentali in diversi campi dell’espressione visiva (pittura, scultura, cinematografia, design industriale, grafica) e non visiva (scrittura, poesia, didattica) e le sue opere hanno come motivo principale una ricerca costante sul tema del gioco, dell’infanzia e della creatività.
    E’ difficile, se non impossibile, collocare Munari in un unico settore; la sua convinzione era che “L’arte è ricerca continua, assimilazione delle esperienze passate, aggiunta di esperienze nuove, nelle forma, nel contenuto, nella materia, nella tecnica, nei mezzi”. La sua attività spazia dall’arte in senso stretto alla grafica pubblicitaria, alla progettazione di giocattoli; sono peraltro molto celebri i suoi numerosi libri per bambini, per l’infanzia e per la scuola, così come anche la

     serie dei cosiddetti “libri illeggibili” testi privi di parole e destinati a comunicare a livello tattile grazie alle pagine realizzate in materiali diversi.
    Da giovane, Munari fu influenzato da Marinetti e partecipò al movimento futurista, ma successivamente, negli anni Quaranta, fondò egli stesso, insieme a Dorfles, Monnet e Soldati, il MAC (Movimento Arte Concreta), una sorta di sintesi tra le diverse correnti astratte che mira a una più stretta connessione tra le arti e tra arte e industria. "
    Enrica Malaspina, "Munari Bruno 1907-1998 Milano. Artista e designer"dal blog  ENRICA MALASPINA design allieva del corso A prof CECILIA POLIDORI a.a. 2010 - 2011,
    dal webMUNARI BRUNO 1907-1998 Milano. Artista e designer. -  http://enricamalaspina.blogspot.it/2011/01/munari-bruno-1907-1998-milanoartista-e.html

    SEMPLIFICARE E’ PIU’ DIFFICILE
    Foto 2
    Complicare è facile,
    semplificare é difficile.
    Per complicare basta aggiungere,
    tutto quello che si vuole:
    colori, forme, azioni, decorazioni,
    personaggi, ambienti pieni di cose.
    Tutti sono capaci di complicare.
    Pochi sono capaci di semplificare.
    Per semplificare bisogna togliere,
    e per togliere bisogna sapere che cosa togliere,
    come fa lo scultore quando a colpi di scalpello
    toglie dal masso di pietra tutto quel materiale che c’é in più.
    Teoricamente ogni masso di pietra può avere al suo interno
    una scultura bellissima, come si fa a sapere
    dove ci si deve fermare nel togliere, senza rovinare la scultura?
    Togliere invece che aggiungere
    vuol dire riconoscere l’essenza delle cose
    e comunicarle nella loro essenzialità.
    Questo processo porta fuori dal tempo e dalle mode….
    La semplificazione è il segno dell’intelligenza,
    un antico detto cinese dice:
    quello che non si può dire in poche parole
    non si può dirlo neanche in molte.

    Bruno Munari
    Foto 3
    "La produzione di Bruno è sterminata, ferma sulle proprie posizioni, ma continuamente messa in gioco. Munari è stato un artista designer che per tutta la sua vita ha compiuto ricerche in zone non convenzionali, esplorando le possibilità materiche strutturali e formali di nuovi mezzi, per produrre oggetti a comunicazione visiva e plurisensoriale. Architetto-poeta attento ai codici e ai linguaggi dell’arte, lucido nell’analisi e curioso del mondo, generoso ed essenziale, lontano dalle più tradizionali e scontate regole del gioco. Saper vedere per saper progettare, ricordava. E applicava questa regola, vero e proprio “metodo” , tanto alla struttura produttiva (dove l’oggetto è oggetto prima di essere merce) quanto alla didattica. La regola e il caso: l’unica costante della realtà è la mutazione, diceva parafrasando un detto cinese. Solo se sei in continua evoluzione, insomma, sei nella realtà. Nella realtà, tutti quelli che hanno la stessa apertura visiva e vedono il mondo nello stesso modo, non hanno osservazioni diverse da comunicarsi.
    Solo chi ha un’apertura visiva diversa vede il mondo in un altro modo e può dare al prossimo un’ informazione tale da allargargli il suo campo visivo. Bruno Munari è stato un grande maestro del vedere, per maestria del suo fare, ma anche per il suo insegnare a scoprire le infinite dimensioni della visualità. Se tutti iniziassero a guardarsi intorno potrebbe scattare una rivoluzione, perché saper vedere significa saper pensare con elasticità e libertà.  La fantasia, l’invenzione, la creatività pensano, l’immaginazione vede. Sullo sfondo di una profonda conoscenza della cultura e della disciplina Zen, Munari manifesta con chiarezza una vocazione a far entrare l’arte nella vita, partendo dalla ridefinizione di ogni gesto quotidiano in funzione di un percorso di conoscenza del sé che passa attraverso la conoscenza dell’altro. 

    L’artista può preparare gli individui (a cominciare dai bambini) a difendersi dallo sfruttamento, a smascherare i furbi, ad esprimersi con la massima libertà e creatività. Può continuare la tradizione invece che ripeterla stancamente.

    La rivoluzione va fatta senza che nessuno se ne accorga. La leggerezza è stata per Munari un modo di pensare, una forma mentis , in momenti storici in cui la pesantezza intellettuale sembrava quasi un obbligo di casta.  Come non ripensare, a questo proposito, a Calvino, autore poliedrico, innamorato dell’infanzia, e per tanti altri versi così simile a lui (Lezioni Americane – Sei proposte per il prossimo millennio, cfr.: Lezioni americane - WikipediaLezioni americane: sei proposte per il prossimo millennio, di Italo Calvino : MeLoLeggo.itTNTforum -> Italo Calvino - Lezioni americane). Tutti sono capaci di complicare. Pochi sono capaci di semplificare. La semplificazione è il segno dell’intelligenza. Un antico detto cinese dice: quello che non si può dire in poche parole non si può dirlo neanche in molte. Due degli artisti italiani più celebri ed amati a livello internazionale hanno lasciato, l’uno indipendentemente dall’altro, un’eredità così precisa: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità. La passione di Bruno Munari per il mondo dell’infanzia è l’emblema della sua fiducia nel futuro: “I bambini di oggi sono gli adulti di domani aiutiamoli a crescere liberi da stereotipi
    aiutiamoli a suiluppare tutti i sensi
    aiutiamoli a diventare più sensibili
    un bambino creativo è un bambino più felice. “ "
    [...]Partendo dalla consapevolezza che la sperimentazione diretta facilita la comprensione 
    Foto 4
    e la trasmissione delle conoscenze, l’artista ha messo a disposizione la propria capacità di scegliere e fornire materiali e suggestioni visive, perché il bambino potesse egli stesso agire, liberando la propria curiosità in un gioco solo minimamente guidato, suggerito soprattutto attraverso le immagini e le dimostrazioni pratiche. Più che un metodo quello proposto da Munari è un modo di proporsi nei confronti dei bambini: l’assenza di una strutturazione rigida. [...]Bruno Munari può essere considerato una delle personalità, non appartenenti alla scuola, che ha saputo offrire stimoli eccezionali al mondo dell’educazione, che la scuola ha poi saputo fare propri. E’ stato un artista che ha rivolto all’infanzia uno sguardo particolare, riuscendo a comprenderne ed interpretarne i bisogni profondi. La sua attenzione non era volta ad un bambino immaginario, ma al bambino reale, che ha necessità di conoscere e di comprendere il mondo intorno a sè.
    Un mondo fatto di sensazioni tattili che vanno riscoperte e conservate, di capacità di osservare con curiosità e stupore la natura, di voglia di esplorare tutte le possibilità che ci offrono gli strumenti grafici prima ancora di disegnare, di allegria nello scoprire tutti i suoni che produce un pezzetto di carta, di voglia di collezionare quanti rossi ci sono…
    Foto 5
    [...]L’AMBIENTE come laboratorio.
    Il MATERIALE come offerta di conoscenza.
    L’ADULTO come guida e indicatore di metodi di lavoro.
    Questi sono tre punti cardine del pensiero pedagogico su cui si fonda il laboratorio Bruno Munari.
    Il laboratorio, secondo il Metodo Munari, rappresenta un luogo di creatività, libertà, sperimentazione, scoperta ed apprendimento attraverso il gioco ed osservazione della realtà che ci circonda con tutti i sensi,come premessa al conseguimento di una personalità originale ed autonoma attraverso lo sviluppo della creatività. I bambini sono liberi di scegliere la tecnica e  di sperimentarne anche più di una, uscire dalle regole apprese ed essere capaci di mescolare il tutto, per poi scegliere il comportamento più rispondende alla propria personalità (diversa da quella degli altri).
    Il laboratorio di Bruno Munari non ha banchi, ma tavoli da lavoro, perciò permette totale libertà di gesti, di movimenti e, diversamente dalla scuola, possibilità di cambiare posto in funzione delle esigenze di lavoro. Nel laboratorio non si trovano verità precostituite o modelli da trasmettere, ma la possibilità di ricercare più verità e più modelli. Nel laboratorio non riveste primaria importanza il prodotto finale, quanto piuttosto il modo con cui si perviene al risultato, risultato che potrà essere l’inizio di una nuova 
    Foto 6
    sperimentazione. Con i suoi Laboratori Munari propone di insegnare ai bambini come si guarda un’opera: l’arte visiva non va raccontata a parole, va sperimentata: le parole si dimenticano, l’esperienza no. Se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio capisco, soleva ripetere l’artista, citando un antico proverbio cinese. Nel Laboratorio “si gioca all’arte visiva” affinchè si possa fruirne con maggiore consapevolezza e spirito critico. Il metodo si basa sul fare affinchè i bambini possano esprimersi liberamente senza l’interferenza degli adulti, diventando indipendenti e imparando a risolvere i problemi da soli.
    “Aiutami a fare da me” [...]
    "Bruno Munari" su Lapappadolce – imparare coi bambini: pedagogia e didattica, arte e manualità/altre pedagogie/classi 1a-5a/da 0 a 3 anni/dai 3 ai 6 anni/PEDAGOGIE, 10 Marzo 2011,

    Un giorno sono andato in una fabbrica di calze per vedere se mi potevano fare una lampada. Noi non facciamo lampade, mi risposero. E io: vedrete che le farete
    Bruno Munari
    Foto 7
    "Con questa frase di Bruno Munari, si può presentare una delle più note lampade del design italiano, nonché uno dei più conosciuti tra i progetti dell’artista designer. La lampada a sospensione Falkland, una lampada da la luce effimera, scenografica e scultorea, nella sua presenza. Testimonianza della creatività di Munari, la lampada Falkland, disegnata nel 1964 per Danese, vede coinvolta nel suo iter una ditta che realizzava calze femminili, essendo infatti pensata in origine usando maglia elastica, questo tessuto elastico tubolare definisce la forma grazie ad anelli metallici in alluminio naturale, che ne fanno da struttura.  E’ la forza di gravità che definisce e si estende nei suoi 166 cm (ma anche a misure intermedie di 85 cm e 53 cm) con diametro di 40 cm . Questa semplicità di materiali, la, rende facile ad essere trasportata è facilmente montabile secondo la stessa logica che si ritrova anche per altre lampade Bali del 1958 (cfr.: Lampada Bali di Bruno Munari per Danese | EYEON design

    e Capri del 1961 e versione 2006 (cfr.: Bruno Munari - opere)

    Foto 8
    realizzate da Munari, sempre per Danese. La visione geniale del progetto sta nell’essere riuscito ad aprire la strada nell’ambito del design, ad un materiale inedito, trasferire l’uso della filanca leggera, flessibile e intercambiabile, ad un settore diverso fino ad allora impensabile. Struttura interna portante e da una parte esterna che, fungendo da diffusore, regola il tipo di illuminazione, tutti accorgimenti determinano anche il basso costo nell’ottica di un design democratico. La lampada Falkland, definita forma spontanea, assume il suo aspetto quando viene sospesa, luce soft come all’interno di una nuvola. Una presenza importante e semplice allo stesso tempo che racchiude in sé il pensiero di Munari,che si distingue nel mondo del design, per la semplicità e la linearità dei suoi oggetti e per la logica essenzialità strutturale. La lampada è in collezione al Moma di New York."
    Foto 9
    "La forma della lampada ‘Falkland’ nasce dalla tensione di un tubo di filanca e dal peso di alcuni anelli metallici: è una forma spontanea, generata unicamente dalla tensione delle forze interne che la compongono.  [...]  Questa lampada corrisponde più delle altre ai requisiti che Munari indica come indispensabili per una corretta progettazione: semplicità, efficienza, minimo ingombro di stoccaggio e massima resa formale. Nasce dalla commistione di oggetti lontanissimi tra loro, come le nasse da pesca, le calze da donna e le lampade di carta orientali. Falkland si compatta nella confezione in pochi centimetri di spazio, la luce filtra dal tubo, utilizzando la texture del tessuto per creare un caratteristico effetto di luminosità morbida e diffusa. Il diffusore è disponibile nella versione ignifuga."
    "Danese Falkland 53 cm" su DESIGNINLUCE, dal web :Danese Falklan 53cm - http://www.designinluce.com/prodotti/danese-falkland-53cm_10427

    Fonti foto:


    Alessia Chillemi
    corretto e ripostato cp:  
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    sabato 28 dicembre 2013


     Joe Colombo e la Tube Chair
    Foto 1 - Joe Colombo

    Joe Colombo (il cui nome si pronuncia “Gioe”, non “Giò” come tutti ritengono ( da: Recall, "Un futurista di nome Joe", 6 Ottobre 2010, http://www.mixdesign.it/un-futurista-di-nome-joe_recall_x_19.html)), fiore all’occhiello dei favolosi anni ’60 nasce a Milano nel 1930, figlio di un piccolo industriale.  Nei primi anni Cinquanta entra nel gruppo di pittura nucleare con Enrico Baj. Studia all'Accademia di Belle Arti di Brera e successivamente al Politecnico di Milano. Nel 1961, abbandonata la professione di scultore e pittore e apre uno studio di design a Milano.
     Una figura italiana, tra le più importanti del panorama internazionale di design, profondamente proiettata verso il futuro. Un progettista inarrestabile e iper-produttivo. Mobili polifunzionali, sedie, lampade, macchine fotografiche, bagni, cucine, auto, orologi, bicchieri, stand pubblicitari, città nucleari sotterranee nulla si sottrasse alla sperimentazione di Colombo. Morto prematuramente purtroppo a soli 41 anni nel 1971, credeva fortemente nel futuro e proprio in quei fondamentali anni '60 in cui il futuro cominciava di colpo a sembrare vicino ce ne restituì una particolarissima prefigurazione; un visionario che definiva il proprio lavoro così:
     “Le mie esperienze di design tentano un collegamente evolutivo realtà attuale e quella futura“. 
    Un connubio tangibile in tutti i suoi prodotti, soprattutto se pensiamo ai modelli abitativi multifunzionali (che all’epoca trascendevano da qualunque logica progettuale) volti a rendere superflui gli arredi convenzionali e combinarli per produrre una nuova forma di “equipaggiamento” capace di offrire il massimo comfort e la massima funzionalità. Ricerca dei materiali, flessibilità e modularità sono alcune delle caratteristiche chiave delle opere di Colombo, elementi ben riconoscibili nelle poltrone Tube Chair e Multi Chair che, attraverso semplici combinazioni si prestano ad infiniti usi. “
    (da: Ivana,“Joe Colombo: il designer futurista”, 17 Gennaio 2008,  http://www.architetturaedesign.it/index.php/2008/01/17/joe-colombo-design-italiano.htm )                   
    Tube Chair progettata nel 1969 e realizzata nel 1970 è interessante soprattutto dal punto di vista del packaging, definibile quasi sostenibile.
    Foto 2
    Foto 4
    Foto 3
    ("È molto diffuso l'uso di riferirsi all'imballaggio con il termine inglese packaging: quest'ultimo termine, tuttavia, nel suo contesto linguistico originale, assume un'accezione più ampia, riferendosi non solo alla materialità dell'imballaggio, ma anche agli aspetti immateriali riguardanti il processo produttivo, industriale ed estetico, laddove, invece, il termine italiano assume un significato più ristretto, relativo all'involucro materiale, o all'operazione (o al complesso di operazioni) attraverso cui la merce viene racchiusa nell'involucro.") 
    Da Wikipedia, "Imballaggio",  http://it.wikipedia.org/wiki/Imballaggio
    Foto 8 
    Foto 5 
    “Oltre ad essere il primo sistema di seduta in assoluto a essere commercializzato in una sacca chiusa da un cordoncino, la sedia Tubo di Joe Colombo costituisce un esempio lampante […] nell’estetica Pop dei designer italiani più all’avanguardia. Quattro tubi in plastica di dimensioni diverse, ricoperti di schiuma di poliuretano espanso e rivestiti di vinile si presentavano inseriti uno dentro l’altro. Una volta aperta la sacca, l’acquirente poteva combinarli in qualsiasi sequenza desiderasse per mezzo di giunti di raccordo tubolari di acciaio e gomma. Era così possibile fabbricarsi una sedia da lavoro come una chaise longue o anche un vero e proprio divano (unendo due set tra di loro).
    Foto 6
    Foto 7
    Questa idea di Colombo era decisamente diversa da quelle proposte da precedenti designer quali Le Corbusier, le cui visioni si fondavano sul Modernismo e sul principio per cui ” un modello va bene per tutti “. Dalla metà alla fine degli anni Sessanta, invece, divennero gradualmente la regola le opzioni aperte che si adattavano a una gamma il più possibile ampia di dimensioni, forme, atteggiamenti. In quel periodo si verificò una trasformazione senza precedenti nella cultura dei materiali e nelle consuetudini sociali. Invece di seguire precetti consolidati su ciò che doveva essere una sedia o qualsiasi altro oggetto, […] Colombo creò prodotti caratterizzati dalla possibilità di essere 

    ricombinabili a piacere, e realizzati in materiali pressoché sconosciuti e stravaganti per la maggior parte degli italiani. La sedia Tubo rientra in una categoria di design che Colombo aveva definito di “serialità strutturale”: in pratica, si trattava di singoli oggetti che potevano assolvere varie funzioni in molti modi diversi. Dal 1970 fino al 1979 la sedia Tubo è stata prodotta da Flexform, uno dei più avventurosi produttori italiani, dopodiché il brevetto è stato acquisito da Vitra Design nel 2006 la quale produce la sedia ancora oggi."
    ( Fabbrica Architettura, " Sedia Tubo", 8 Novembre 2011,   http://www.fabbricaarchitettura.it/2011/11/i-grandi-oggetti-del-design-sedia-tubo/ )



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    venerdì 3 gennaio 2014

    DEEPS Design by Cecilia POLIDORI - Design and Evolution of Experimental Prototypes Suggested - 2, 2°: Il Design di Vico Magistretti - 
    Il Design di Vico Magistretti 
    Foto 1 – Vico Magistetti
     “Design è anche guardare gli oggetti di tutti i giorni con occhio curioso”.
    Ludovico Magistretti conosciuto e chiamato Vico, nasce a Milano il 6 ottobre 1920. Proviene da una famiglia di architetti da molte generazioni. Nel 1945  si laurea in Architettura presso il Politecnico di Milano e inizia subito l'attività professionale. Nel 1946 partecipa alla mostra della R.I.M.A. (Riunione Italiana per le Mostre di Arredamento), tenutasi presso il Palazzo dell’Arte, con alcuni piccoli mobili quasi self made e successivamente, nel 1947 e nel 1948 , insieme a Castiglioni, Zanuso, Gardella, Albini e altri, partecipa alle mostre organizzate da Fede Cheti, creatrice di tessuti per l’arredamento, nel proprio atelier. Tra il 1949 e il 1959, nella Milano della ricostruzione, Magistretti progetta e realizza in collaborazione con altri architetti circa quattordici interventi per l’INA - Casa. 
    Nel 1960, durante la XII edizione, cura con Ignazio Gardella la sala introduttiva della mostra “La casa e la scuola”; in questi anni la particolare attenzione rivolta al tema della casa e dell'abitare finirà per monopolizzare la sua attività di architetto, facendogli mettere a punto un linguaggio estremamente espressivo. Magistretti è uno dei padri del cosiddetto Italian Design, fenomeno che lui stesso definisce “miracoloso” e che si è potuto verificare solo grazie all'incontro di due componenti essenziali: gli architetti e i produttori.  A partire dalla fine degli anni ‘60 collabora con produttori d’eccezione, tra cui Artemide, Cassina e Oluce, realizzando per loro oggetti che rimarranno dei "classici" della produzione contemporanea; come la Lampada Dalù per Artemide (1965), ancora oggi  presente nel Catalogo Artemide aggiornata con nuove varianti cromatiche.  
    Foto 2 – Lampada Dalù Anno 1965
    Per la Lampada Dalù, Magistretti lavora sulla modellazione della forma, così ottiene un unico pezzo in abs stampato che funge sia da base di appoggio che da calotta semisferica contenente la lampadina che emette luce diretta ma senza abbagliare. Il designer pone grande attenzione alla qualità formale e al dettaglio, ponendo come obiettivo la forma da ottenere da rendere funzionale all'oggetto. Nella Dalù non si può parlare di luce nera perché la fonte, nonostante sia oscurata in buona parte dalla calotta, è visibile dall'utilizzatore. Anche in questo oggetto il designer sceglie di lavorare con delle parti di sfera, tuttavia inserisce dei raccordi più complessi sfruttando le possibilità che il materiale gli offre.

    Il pensiero di Magistretti

    In un’intervista per il Corriere della Sera illustrato del 31 Dicembre 1977 con articolo dal titolo:
    Cosa c’è dietro l’angolo del << Design>>
    Magistretti risponde:
    << Mi sono sempre piaciuti gli oggetti fatti di niente, quasi dei concetti espressi nello spazio col minimo dei materiali e col minimo sforzo apparente. Penso, infatti, che un oggetto di buon disegno debba durare sempre, al di fuori di ogni moda, moda che riportata nella produzione degli oggetti è il sistema migliore per uccidere l’immagine del “disegno italiano”.  A distanza di tempo, malgrado ogni critica sul piano ideologico, possiamo, infatti, affermare che “ il disegno italiano” ha una sua immagine ben precisa, forte e diffusa nel mondo. Certo che “dietro l’angolo” c’è una modificazione profonda di tutto: dei consumi, della produzione, della distribuzione, delle parole stesse. Bisogna ora disegnare per un mondo che è cambiato, che rifiuta il provvisorio e il throw – away (buttare – via), che è più informato e più colto e che vuole intensificarsi in quello che è, in un mondo più duro, più autentico.
    Il famoso “industrial design” non è mai quasi esistito. Il mondo ha sempre più bisogno di una poesia dell’autenticità: prima pensavamo che è bello ciò che è utile, ora sappiamo che è utile ciò che è bello>>.

    Vico Magistretti fu scelto nel 1986 come miglior designer della Royal London School of Arts, dove insegnava; nello stesso anno il 4 aprile  gli fu rivolta un’altra intervista per La Stampa, in cui fu riportata con l’articolo dal titolo: Professione designer di Gian Paolo Boetti.

    BoettiChe cos’è per lei il design?
    Magistretti: … << Da un punto di vista squisitamente linguistico, dovrebbe essere un processo in cui progettazione, ideazione e produzione s’incontrano a metà strada per produrre un oggetto. Il design, non si sa bene perché in tutte le lingue si chiami così …
    Sarebbe facilissimo, per esempio, chiamarlo in italiano disegno, no?, invece il design definisce qualcosa che ha poco a spartire con il disegno.
    Il design è un progetto che cerca di fondere nella sua incertezza, nella sua essenzialità, le caratteristiche visuali di un oggetto alle caratteristiche produttive>>.
    Boetti: Cioè è finalizzato alla produzione industriale, alla riproducibilità?
    Magistretti<< Alla riproducibilità: l’oggetto di design dev’essere comunque prodotto in numero, grande grandissimo medio o piccolo, ma in numero. In questo senso è esattamente il contrario del disegno del pezzo unico, caratteristica principe dell’artigianato>>.
    Foto 3
    Boetti: Da che cosa nasce la voglia di design?
    Magistretti<< Il designer nasce dall’interesse sempre crescente, direi a partire dal dopoguerra, per l’immagine degli oggetti: non si accetta più un automobile brutta, una radio brutta, un rasoio brutto … È  intervenuta questa coscienza, diciamo dell’immagine che è un fatto molto stimolante.
    … Il design in Italia è stato inventato dagli architetti, perché hanno dovuto negli anni 55 – 60, confrontarsi con la realtà: costruendo case hanno creduto di non trovare sufficiente materia per arredarle, cioè renderle funzionali, se non creando queste cose …>>.                                                                         
    Boetti: Secondo lei quella del designer è una professione che si può consigliare?
    Magistretti<< È una professione molto rischiosa, come è molto rischiosa la professione dell’architetto …
    … Il rischio di affrontare questa professione, chiamandola creatività, è un pochino come quello della carriera concertistica. Molta gente suona bene il pianoforte, però di Benedetti Michelangeli, di ottimi pianisti da concerto, ne escono pochissimi … chi si pone sul mercato come creativo ha poche alternative. O riesce o non riesce. E per uno che riesce diecimila falliscono>>.

    Per Magistretti il design è l’Idea. È un concetto. Lui stesso dice: << l’oggetto deve avere un senso. Ma, per raggiungere questo risultato, deve essere il cervello a guidare la mano di chi progetta. Insomma, il design è tutto nella testa. Per mia fortuna, non ho mai disegnato bene e, così, non mi sono lasciato sedurre dalle sirene del bel disegno … il bel disegno – tradotto nella realtà o nella concretezza dell’oggetto – non conta nulla. Contano solo le idee … chi ha fatto il design italiano, si è preoccupato di ben altro: di ideare oggetti che possano essere usati dalla gente. E per questo, disegnare bene non è affatto necessario>>.
    da Massimo di Forti, Ma lo stile è una grazia/ Incontri/ a colloquio con V.M., uno dei maggiori protagonisti del design italiano - 
     web: http://www.vicomagistretti.it/PDF/PDF%20Interviste/19900107_Messaggero.pdf
    Foto 4
    << Gli oggetti debbano avere sempre un preciso significato >>
    << È difficilissimo fare le cose che sembrano semplici >>
    << Si impara dagli errori>>
    La <<semplicità>> è una delle idee che lo hanno maggiormente guidato in oltre quarant'anni di design. << È difficilissimo fare le cose che sembrano semplici>> questo ripete nelle varie interviste senza stancarsi mai; e dice anche con estremo trasporto che le cose semplici sono sempre il risultato di un’estrema complessità.  video 1: "La semplicità complessa" - Ultrafragola Channels TV - Vico Magistretti, la semplicità complessa; video 2: "Magistretti: L'intervista" - Ultrafragola Channels TV - Magistretti: l'intervista.
    <<Ma lo stile è una grazia>>
    … Trovare un proprio linguaggio, un proprio modo di esprimersi è una grazia …
    Vico Magistretti è stato uno dei più illustri esponenti di quel fenomeno culturale e produttivo, l’Italian Design, che ebbe inizio nell'immediato dopoguerra e lanciò lo stile della casa italiana nel mondo.
    Foto 5 - Video: La Semplicità Complessa 
    Un periodo magico per il design italiano caratterizzato dallo speciale rapporto tra produttori e designers, fondato su una stretta collaborazione, che ha fatto del design italiano un fenomeno unico al mondo per dinamicità,  ricerca e per durata nel tempo.
    La sua opera copre un arco di oltre cinquant'anni disegnando alcuni tra i prodotti più significativi della produzione di serie: sedie, lampade, tavoli, letti, cucine, armadi, librerie, oggetti reinventati nell'uso e nelle forme, secondo lo stile misurato ed elegante di Magistretti.
    Quasi tutti sono ancora in produzione e continuano a essere dei bestsellers. A conferma che "un oggetto di buon design deve durare a lungo, 50 o anche 100 anni", come sosteneva  lo stesso Magistretti.

    FONTI ICONOGRAFICHE:  

    giovedì 16 gennaio 2014

    "Dove c'è Barilla c'è casa" -




    vorrei, parafrasando il titolo, dire "urka! "dove c'è cibo c'è design da paura" visto quanto i miei allievi si scatenino sul soggetto.
    Francesca, che dire: fantastico post che corre in bibliografia sull'argomento.  cp
    Un grande esempio di comunicazione pubblicitaria è certamente quello che da anni dà l’azienda Barilla, che ogni giorno rievoca le tradizioni gastronomiche italiane con uno slogan ormai storico: “Dove c’è Barilla c’è casa”.
    Slogan in vigore da un trentennio ma che si è sedimentato nelle menti degli italiani. Una di quelle cose che funzionano, piacciano o meno: perché corrispondono a un immaginario, perché raccontano qualcosa, perché raggiungono il punto giusto sul fondo della memoria collettiva e là mettono radici.
    “Barilla è un’azienda multinazionale italiana fondata nel 1877 a Parma, in strada Vittorio Emanuele, come bottega che produceva pane e pasta da Pietro Barilla, discendente di una famiglia di panettieri”.
    La ditta nel corso degli anni si è ingrandita, diventando la più grande azienda del settore alimentare, leader mondiale della pasta secca, dei sughi pronti in Europa, dei prodotti da forno in Italia e dei pani croccanti nei paesi scandinavi.
    Lo slogan utilizzato dalla casa produttrice è molto diverso all'estero: negli Stati Uniti d'America la Barilla è conosciuta come "The choice of Italy" (trad. La scelta dell'Italia), mentre in francese ne viene utilizzato uno
    simile, "Les pâtes préférées des Italiens" (trad. La pasta preferita degli italiani). In russo è semplicemente tradotto dall'italiano: "Там где есть Барилла там дом" cioè "Dove c'è Barilla, c'è casa".
    Dal Web: http://it.wikipedia.org/wiki/Barilla
    La Barilla riesce, attraverso diverse forme comunicative, ad esprimere gli stessi concetti. L’ingrediente fondamentale degli spot sono la semplicità, un sottofondo di poesia, che colpiscono sempre gli aspetti emozionali.

    La storia siamo noi: 

    Pietro Barilla - La pubblicità dei buoni sentimenti: 

    http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntate/pietro-barilla/695/default.aspx

    Dietro questa semplicità c’è sempre un grande studio: le scene ad effetto, le immagini… Il Visual è come se si trasformasse in testo e narrasse la storia della cucina italiana che sa stupire anche con piatti di veloce preparazione, e che riesce anche ad avere una qualità che nessuna cucina del mondo ha: quella lentezza, quella ritualità che fa sentire sempre tutti “a casa”.
    Perché no? Potremmo definire gli spot della Barilla come mezzi di comunicazione che rientrano a pieno nell’ambito del Food Design, in quanto studiati, progettati, e il cui messaggio giunge sempre a destinazione.
    “Il Food designtraducibile come "progettazione del cibo" (o Progettazione degli Atti Alimentariè la disciplina del design industriale che si occupa dell'ideazione e progettazione di alimenti, o parti di prodotti alimentari complessi… Alla disciplina prettamente progettuale negli anni si sono affiancati anche altri sistemi di presentazione del prodotto come il marketing e la comunicazione pubblicitaria, anche l'imballaggio ha assunto un ruolo determinante nella presentazione del prodotto progettuale.
    Come un prodotto può  essere lo specchio di una rivoluzione sociale:  Mina e gli spot del 1965-67
     Spot della Barilla del 1967http://27esimaora.corriere.it/articolo/quando-la-pubblicita-barilla-con-mina-raccontava-altre-storie/
    Gli anni ’60 per la Barilla iniziano con dei rinnovamenti: oltre l’ingrandimento dell’azienda e l’assunzione di nuovi dipendenti, siamo del periodo in cui si comprende che gli spot pubblicitari sono un ottimo mezzo di comunicazione e si inizia a ritenere importante lo sviluppo d’immagine.
    Nel 1965 l’azienda attuò una buona politica di comunicazione: infatti, nei suoi Caroselli inserì la figura di Mina, che ebbe un grande successo sia personale, sia per la diffusione commerciale della Pasta Barilla
    C’è stato un tempo in cui l’azienda emiliana –sotto la guida illuminata di Pietro Barilla (1913-1993)- non solo ha incarnato un’idea di Italia in cui tutti potevano riconoscersi ma ha anche scelto consapevolmente di guardare in avanti, provando a immaginare e raccontare una società in via di modernizzazione in cui le donne non erano identificate soltanto come massaie ma stavano diventando sempre più protagoniste.
     Da allora sono passati quaranta o al massimo cinquant’anni. Ma sembrano secoli se proviamo a confrontare scelte di campo e modalità di narrazione.
    Si tratta di uno spot del 1967 e nel messaggio promozionale è presente un’autentica rivoluzione linguistica e culturale: non solo Mina si rivolge alla spettatrice con il tu, ma la invita a preparare la pasta per il suo uomo e per i suoi ragazzi, non per suo marito e i suoi figli. E allora come oggi la mente corre da una parte al titolo di uno dei più grandi successi della cantante – È l’uomo per me (1964)- e dall’altra alle vicende personali che fecero dell’artista un simbolo di emancipazione femminile.
    Mina, la più trasgressiva, moderna e sexy delle celebrità degli anni Sessanta, era stata ingaggiata come testimonial dall’azienda emiliana nel 1965: un anno di svolta per la sua carriera. La cantante venticinquenne era infatti appena rientrata in televisione dopo esserne stata bandita per più di un anno a causa della sua relazione irregolare con l’attore Corrado Pani, all’epoca già sposato.
    Nel 1965 la popolarità di Mina era alle dunque alle stelle, eppure ingaggiarla come testimonial fu una scelta di marketing abbastanza azzardata.
    Cosa c’entrava Mina con la pasta, la casalinga e la famiglia tradizionale italiana? Poco o nulla.
    Mina rappresentava però un modello di donna moderna e indipendente. E sceglierla come testimonial dimostrò che la Barilla intendeva farsi interprete del cambiamento in atto nella società proprio in un momento storico in cui il paese reale era lontano anni luce dal paese legale". 
    L’investimento nella comunicazione fatto negli anni ’60 lascerà tuttavia un’impronta durevole nel costume e nei consumi degli italiani. Uno spot di un semplicissimo prodotto come la pasta che partecipa ad una svolta decisiva nella situazione della donna.
    Mina lavora con la società emiliana fino alla crisi economica che ha investito il paese negli anni ’70, ma gli spot girati hanno lasciato un’impronta tangibile negli usi e nei costumi degli italiani: alla fine della crisi troveremo una donna seduta a gustare la pasta e non a servirla, ma questa è un’altra storia. 

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